Per un'azione di animazione sociale di Guido Contessa*

Sommario:

1. Organizzazione micro e macrosociale (prospettiva antropologica)

2. Cristallizzazione della diseguaglianza (potere e delega)

3. Meccanismi di compensazione e crisi

4. Presa di coscienza o ritorno al padre?

5. Il cambiamento ed il ruolo

6. Come sostenere il conflitto?

7. Piccolo gruppo autogestito

8. L’organizzazione

9. Fiducia nell’uomo

10. L’animatore

11 .Direttività e non

12.Educazione e autogestione

Post scriptum

1. Organizzazione micro e macrosociale (prospettiva antropologica)

Ogni organizzazione sociale, cioè un insieme di uomini riuniti per uno scopo e con determinate regole interne, è caratterizzata da un principio indiscutibile: la volontà di fare insieme ad altri qualcosa che è difficile o costoso, o rischioso o impossibile fare individualmente.
Dall’autoconservazione, al progresso tecnico, dalla difesa da nemico, all’istruzione: tutte queste esigenze individuali e collettive hanno dato origine ad organizzazioni nella convinzione che queste fossero la migliore modalità di soddisfazione. Una organizzazione sociale ha come scopo primario la realizzazione dei fini che la comunità le ha affidato.
La famiglia è l’organizzazione primaria che l’uomo si è dato per la soddisfazione dei bisogni di sicurezza, amore, sopravvivenza. Dall’insieme delle famiglie, alla tribù, allo stato, alla comunità sovranazionale troviamo una serie di modalità organizzative complesse, finalizzate alla maggior efficacia dell’azione dell’uomo sulla realtà circostante.
Nello sviluppo psichico un individuo media tra il principio del piacere e il principio della realtà, reprimendo una parte delle proprie pulsioni istintuali grazie a meccanismi superegoici (proibizioni, paure, sensi di colpa, ecc.). Nello sviluppo sociale il nucleo familiare compie una mediazione più vasta, sacrificando una serie di libertà a favore di possibilità maggiori ottenibili mediante la sottomissione a strutture macrosociali organizzate.
La famiglia rinuncia a difendersi da sé o ad istruirsi autonomamente, creando l'istituzione "esercito" o la istituzione "scuola" alle cui regole (concordate) decide di sottostare. Alcuni bisogni individuali sono meno importanti, oppure temporanei, o non generalizzabili al punto che non si crea una organizzazione per soddisfarli: queste esigenze trovano una risposta nei gruppi microsociali come la classe scolastica, il gruppo di lavoro la associazione amicale.
Le organizzazioni micro e macrosociali sono dunque fenomeni di potere delegato a scopo di efficacia. L’individuo delega una parte del suo potere all’istituzione affinché questa gli renda un servizio; oppure baratta una parte della sua onnipotenza col gruppo in cambio di beni che solo il gruppo può offrire (sicurezza, solidarietà, amore ecc.).

 

2. Cristallizzazione della diseguaglianza (potere e delega)

La diseguaglianza probabilmente affonda le sue radici anche in fatti biologici non ancora controllati, oltre che in fatti sociali.
Il problema della società è quello di scegliere fra lo strutturarsi in un sistema omogeneo alle differenze genetico-familiari, o l’organizzarsi invece per la loro progressiva eliminazione.
La scelta è esclusivamente valoriale o metastorica. C’è chi crede nella Redenzione e nella vittoria del Proletariato, e chi no.
Purtroppo la storia dell’uomo ci offre solo esempi mitologici di strutture egalitarie durevoli: se entriamo nel periodo della civiltà "scritta" notiamo che le strutture sociali sono essenzialmente servite a cristallizzare la diseguaglianza.
Le deleghe di potere hanno creato (forse contestualmente) la proprietà privata ed i ruoli sociali, che, invece di essere ciclicamente ruotati ed equamente distribuiti, si sono concentrati ed accumulati e conservati nelle mani di pochi.
La sostanziale distinzione fra l’orda e la società civilizzata è la cristallizzazione dei ruoli, la divisione del lavoro e del potere, e la nascita di istituzioni di conservazione.
Possiamo convenire che tutte le organizzazioni e le istituzioni della società occidentale hanno una struttura di tipo piramidale, in cui il vertice detiene il massimo del potere e del profitto; ai livelli inferiori potere e profitto decrescono fino all’ultimo gradino dove esiste il massimo del loro contrario: l’alienazione e lo sfruttamento.

max potere max profitto
max alienazione max sfruttamento

Tralascio qui di dilungarmi su analisi arcinote relative alle caratteristiche dell’élite, agli strumenti che usa per restare tale, e alle possibilità politiche di trasformare la piramide in una figura geometrica meno spigolosa. Mi interessa qui solo analizzare la dinamica psicologica di questa situazione sociale e il possibile ruolo che l’Animazione Sociale può giocare in tale dinamica. Lo schema offerto, pur nella sua grossolanità, vale per tutte le organizzazioni umane della società industriale.
Vale anzitutto per lo Stato Capitalista e per l’impresa dell’economia di mercato, dove poco si può aggiungere all’analisi marxista; vale per la famiglia tradizionale monocellulare; vale per l’istituzione scolastica, per l’esercito, la Chiesa, il partito, l’ospedale, il sindacato. Nelle organizzazioni il cui fine dichiarato non è il Profitto, come il sindacato o l’impresa dei paesi orientali, la posta in gioco è prevalentemente il Potere ed il gradino più basso della piramide con la sua attività produce una sorta di "plusvalore di potere" a beneficio della conservazione del vertice.

 

3. Meccanismi di compensazione e crisi

Tutte queste organizzazioni sopravvivono nella struttura piramidale grazie ad una serie di meccanismi compensatori con cui il vertice "paga" i gradini inferiori: la sicurezza e la deresponsabilizzazione, gli oggetti da consumare; la trasferibilità dell’esercizio del potere. L’individuo non ha più la responsabilità di pensare al suo proprio mantenimento né oggi né domani (ci pensa l’azienda), di provvedere alla sua istruzione (c’è la scuola), o alla sua difesa (c’è l’esercito o la polizia). L’individuo non ha problemi di ansia e competenza per decidere, non deve prevedere, approfondire, trarre conclusioni: a tutto ciò, pensa il vertice. Il Governo, il preside, il generale, il primario, il delegato sindacale, il leader, il padre ci sollevano dalla responsabilità e ci danno sicurezza. Tutto in cambio di poca cosa: una delega di potere.
Il problema è che la delega si è cristallizzata nelle generazioni, ed è ormai irritirabile. E' divenuta proprietà privata e ne ha assommate altre a sé; è indiscutibile; è spesso ereditaria. Tende ad allontanarsi sempre più dalla sua fonte; a vivere una vita autonoma ed anche contraria alle ragioni che l’hanno giustificata. Ecco allora che insieme alla deresponsabilizzazione viene anche l’indisponibilità di noi stessi: continuando a delegare porzioni di potere ci siamo accorti di averlo perso totalmente.
A volte questa delega si cristallizza con il consenso. Esso è più tranquillizzante del conflitto, è più facile a breve scadenza. È la vendita dell’anima al diavolo e la rinuncia alla lotta.
Quanti Faust e quanti Dorian Gray ci sono fra i sostenitori del consenso e della pace!
Il consenso che è raggiunto con una paga più alta (cooptazione), o con una razionalizzazione (è così perché è giusto), o con la compensazione consumistica indotta dai miti e dai mass-media (tutti possiamo avere una bella auto).
A volte il consenso è strappato con una imposizione autoritaria: il potere delegato fa uso della forza fisica o morale per conservarsi. La tortura, le deportazioni, le guerre, il carcere, i ghetti urbani, le istituzioni totali, le minacce, il ricatto, il senso di colpa sono tutta una gamma di strumenti di cui il vertice fa uso a seconda delle situazioni.
Più spesso tuttavia il potere delegato si cristallizza attraverso tutto l’insieme di questi meccanismi, dal consenso alla violenza, con l’aggiunta di quello che possiamo definire "trasferibilità dell’esercizio del potere". Un individuo o un ceto sociale accetta di delegare parte del suo potere purché gli sia possibile gestire una porzione di potere delegatagli dal basso. Nelle organizzazioni gerarchiche ogni livello ha un livello inferiore su cui scaricare l’aggressività in termini di potere; e l’ultimo livello ha sempre l’esterno dell’organizzazione a cui rivolgersi. Come penultima zona di esercizio del potere c’è sempre la famiglia, la moglie e il figlio; come ultima sponda ci sono gli oggetti o la natura, che non reagiscono mai. E la pace sociale degli anni 30.
Chi per caso non deteneva la possibilità (o la rifiutava) di ricevere compensazioni alla propria delega in termini di oggetti, o di sicurezza, o di potere, era talmente minoranza da non recare nessun vero disturbo al sistema (il 3% di dissenso che "fa bene").
Ma in questo quadro così razionale e irrazionale risiedono le contraddizioni da cui origina la crisi degli anni 60: i corrispettivi tradizionali della delega di potere sono venuti gradualmente meno.
Si è incrinato dapprima il principio dell’autorità nel conflitto generazionale dei giovani contro i padre, delle donne contro i mariti, dei negri contro i bianchi. Poi la sicurezza ha lasciato il posto all’ansia del mutamento, del provvisorio, del pericoloso. Infine anche i consumi vengono resi insicuri. Ci è proibito persino di innamorarci dell’automobile.

 

4. Presa di coscienza o ritorno al padre?

Di fronte a queste macroscopiche contraddizioni, il cui vissuto si sta estendendo dalla classe operaia ai ceti intermedi collocati un gradino sopra (insegnanti, tecnici, capireparto, impiegati, ecc.), sono aperte due strade antitetiche.
Da una parte la presa di coscienza, la volontà di cambiare, la assunzione del rischio connesso al cambiamento, e l’attivazione della lotta per il recupero del controllo del potere. Questo atteggiamento è proprio dell’individuo adulto, capace di controllare le ansie, le paure, le resistenze che nascono dall’impegno di trasformare la realtà; dell’individuo autonomo, emancipato, capace di respingere la sicurezza di un sistema materno/ paterno perché attinge a valori slegati dagli oggetti.
Dall’altra parte esiste invece il pericolo (assai più probabile, visto che la famiglia e l’educazione c~ propongono modelli autoritari rassicuranti) che la constatazione delle contraddizioni si traduca in un mostruoso, insopportabile senso di colpa collettivo. Per cui l’unica modalità di espiazione sarebbe quella di inginocchiarci davanti all’Autorità (l’austero padre tanto ingiustamente contestato) e di attenderne la doverosa punizione.
In una situazione ansiogena gli individui cercano disperatamente la sicurezza, e la presa di coscienza di questa verità viene rimossa anche da coloro che sono arrivati alla critica delle contraddizioni del sistema. Cosa è il ricorso a certe dettagliate utopie, se non la richiesta di una sicurezza che è lontana sì, ma definita?
La presa di coscienza delle contraddizioni sociali passa attraverso la presa di coscienza del rapporto di sfruttamento che ci lega al padre (che fa di noi l’oggetto del suo potere). Ma questa scoperta in una società autoritaria è troppo colpevolizzante e traumatica. Il passaggio da una organizzazione piramidale ad una circolare, dall’eterogestione all’autogestione, non può che essere una tendenza graduale ed un susseguirsi infinito di surrogati del padre, con un potere delegato sempre inferiore.

 

5. Il cambiamento ed il ruolo

Definiamo il cambiamento come il passaggio da un situazione A ad una situazione B, diversa dalla prima. Usando le lettere A e B escludiamo qualsiasi attribuzione valoriale alle due situazioni: esse sono solo diverse. Questa operazione di cambiamento, che noi effettuiamo molte volte al giorno, sottintende una complessa dinamica psicologica, alla quale bisogna fare accenno.
Poiché l’uomo è un animale che si adatta alla situazione in cui vive, l’IO di ciascuno cerca sempre un equilibrio fra le proprie pulsioni istintuali e la realtà. Sull’equilibrio raggiunto, l’IO si rassicura, si arrocca, si difende nel timore che un eventuale cambiamento rompa l’equilibrio a sfavore di quella parte degli istinti che è soddisfatta. Il passaggio da un equilibrio ad un altro viene effettuato volontariamente e consapevolmente solo quando l’IO è garantito nell’aumento globale di soddisfazione istintuale. Tutte le altre volte, e nel caso di cambiamenti sociali, l’individuo non è mai garantito, l’IO resiste. In una situazione sociale di dinamica accelerata questa lentezza di "metabolismo psichico" è portatrice di una serie di conseguenze negative che assumono varie dizioni: invecchiamento precoce, esclusione, sudditanza, insignificanza, disadattamento ecc.
I sistemi di informazione ed i processi di accumulazione del capitale hanno provocato quello che viene ottimisticamente definito "progresso", ma che significa invece "aumento progressivo dei ritmi di mutamento". La realtà dunque fluisce, cambia continuamente.
Assistere a questo cambiamento come spettatore, soddisfatto o critico, significa regredire lentamente a stadi sempre maggiori di dipendenza dal padre. Perché al contrario agire nel mutamento, come attori di una parte di esso, significa controllare una parte del potere o riappropriarsi della delega.
L’IO deve poter gestire equilibri dinamici in rapida successione, saper operare sul sociale mentre questo si muove, saper agire nell’indefinito e nell’ambivalenza. Questo però aumenta la nostra ansia di razionalisti, amanti delle variazioni programmate, abituati a considerare la realtà come data (un’automobile ferma che attende il nostro modesto intervento su un pezzo di carrozzeria), educati alle certezze scientifiche, agli odi e agli amori manichei.
E allora quando l’ansia arriva al livello di guardia torniamo indietro o ci fermiamo; l’IO si inchioda sull’ultimo equilibrio che gli dà sicurezza: qualcun altro penserà al mutamento anche per noi! Basta delegargli il potere!
E poiché riconoscere a se stessi di aver rinunciato alla propria adultità, al potere su se stessi, è doloroso: razionalizziamo. Cioè giustifichiamo la nostra sconfitta (la vendita dell’anima al Diavolo), con alibi rassicuranti: "io sono disposto a cambiare, ma gli altri non vogliono!", "niente si può mutare se non cambia il sistema! ". La realtà è che cambiare, cioè decidere e agire, è costoso sia sul piano psicologico sia su quello oggettivo, quindi richiede un atto di profonda volontà.
Mutare significa abbandonare la sicurezza, quindi accettare l’ansia ed il rischio. Mutare significa decidere, dunque scegliere fra diverse possibilità e accettare il senso di colpa verso le decisioni respinte. Quindi ansia, rischio, senso di colpa nella sfera psicologica.
Ma poiché siamo in un sistema sociale che tutto prevede, che codifica dei ruoli cristallizzati, il mutamento colpisce anche l’organizzazione della società e i suoi equilibri di potere: ecco perché spesso il mutamento porta dietro a sé la repressione.
Il ruolo assegnato a ciascuno di noi nel contesto sociale, non è altro che la posizione che occupiamo e l’insieme di azioni che la posizione ci induce a compiere.
Nello schema della organizzazione piramidale, dal momento che il vertice tende a conservarsi, tutte le posizioni inferiori hanno un ridottissimo grado di mobilità. Da ciascun ruolo ci si aspettano comportamenti codificati, caratteristiche definite; ogni mutamento nella gestione del ruolo comporta uno spostamento nell‘equilibrio della organizzazione, disturba la distribuzione del potere. Dunque è sempre sanzionato con la repressione o col ritiro dell’amore da parte dell’autorità-padre: due cose che non sopportiamo a lungo.
Il ruolo è come la parte in teatro. Le battute sono già scritte, il costume è deciso, persino le inflessioni della voce sono stabilite dal regista: si tratta solo di scegliere la persona giusta per incarnare la parte. Poiché la Compagnia, la parte e il regista contano più dell’attore (di solito), chi non si adatta al ruolo se ne va.
Il ruolo sembra dunque l’esecuzione di atti stabiliti da altri e altrove.
Ma questa è ciò che il sistema, l’autorità, il padre tentano di imporci. Chi risponde alle aspettative connesse al suo ruolo è compensato dagli oggetti, dalla considerazione del gruppo, dall’amore del padre; è rassicurato e non ha sensi di colpa.
Il ruolo è dunque l’abito col quale si è ammessi ad assistere alla rappresentazione della storia, del potere, della vita.
Ma il cambiamento non è solo una oscillazione dinamica dell’IO che segue e si adatta ad una realtà in evoluzione; è anche la volontà di trasformare la realtà verso una maggiore soddisfazione dei nostri bisogni, un plasmare creativo della natura, un avere potere su di essa.
A favore dell’ordine piramidale, cioè della ineguale distribuzione del potere, l’aggressività individuale è distorta, deviata, sublimata, comunque allontanata dal suo obiettivo primario. Qui intendiamo il termine aggressività come la capacità di trasformare la realtà e se stessi, la capacità di realizzarsi, il potere di gestirsi. Dal momento che la gran parte di queste espressioni dell’aggressività sono delegate all’organizzazione sociale, ai singoli restano solo dei surrogati: la competizione sul lavoro, la distruzione della natura, la violenza verbale o fisica, il tifo sportivo, la caccia al nemico (gli arabi, l’inter, i giovani ecc.).
La riconduzione dell’aggressività nel canale dell’autorealizzazione presuppone il tentativo di trasformazione dell’altro, la rottura dell’equilibrio, quindi il conflitto e l’insicurezza.
In questa ottica il ruolo non è altro che il complesso di accessori e di strumenti culturali, tecnici, economici per l’espressione della aggressività e per il mutamento. Il ruolo come metodologia del cambiamento, come angolo di approccio per la trasformazione della realtà.
Il ruolo come insieme di competenze e di attributi e di conoscenze, con le quali agiamo sugli altri, su noi, e sulla realtà.
Il ruolo allora è solo la maschera che ci fa salire sul palcoscenico a rappresentare un lavoro, in cui è tutto da discutere: dalla trama ai personaggi. Il ruolo come gabbia dell’aggressività deve lasciare il posto al ruolo come tecnica di espressione della creatività e del potere. Nel ruolo codificato, conchiuso, circondato, il potere sugli obiettivi dell’aggressività è delegato al vertice; il mutamento è controllato; il conflitto è denegato.
Nel ruolo aperto, mutevole, creativo, il potere è recuperato, il mutamento e quindi il conflitto sono permanenti.

6. Come sostenere il conflitto?

Se esiste una diseguale e cristallizzata distribuzione dei ruoli e quindi del potere; se ogni organizzazione sociale è a forma piramidale; se il rapporto padre-figlio, dominante-dominato è radicato nella nostra civiltà; si può parlare di mutamento solo in relazione al conflitto.
Quale forza spontanea, non conflittuale porterebbe infatti al mutamento dei rapporti di potere?
Parlare di conflitto tuttavia equivale ad evocare una serie di fantasmi come la perdita dell’amore del padre, la punizione, il senso di colpa, i quali hanno una tale forza nel nostro subconscio da spingerci a denegare l’ineluttabilità del conflitto stesso.
L’individuo singolo ha raramente la forza psicologica di superare questi fantasmi, e quand’anche la trovasse avrebbe ben poche possibilità di gestire vittoriosamente il conflitto contro il padre ed il Potere. Normalmente l’individuo che entra in conflitto individuale con l’organizzazione, è considerato deviante e subisce una serie di penose vicissitudini.
Diversa cosa può divenire questo conflitto, se è un gruppo a farsene carico; diversissima, se è un insieme di piccoli gruppi organizzati fra loro. La rottura dei ruoli cristallizzati, la disoccultazione del potere ad essi sotteso, il mutamento individuale e sociale, l’incanalamento dell’aggressività verso questi obiettivi, entrano nella sfera della possibilità a livello di piccolo gruppo prima, e di organizzazione poi.

7. Piccolo gruppo autogestito

Un numero limitato di persone si raccoglie attorno ad un obiettivo, un progetto comune; accetta il postulato della mediazione fra istinti individuali e bisogni collettivi; accetta la fede dell’uguaglianza; elabora un senso graduale di appartenenza ad una entità "gruppo" più importante della semplice somma degli individui; quindi tenta di realizzare l’obiettivo condiviso.
Se l’obiettivo è limitato (migliorare le capacità individuali di socializzazione, approfondire un argomento di studio, soddisfare esigenze culturali o affettive) il piccolo gruppo può dar luogo al cambiamento. Perché? Perché esso diventa un rassicurante strumento paterno/materno alternativo. Perché è una organizzazione sociale da laboratorio, non vincolante; non essendo il piccolo gruppo una organizzazione storicamente consolidata, esso non ha la forza di riprodurre i meccanismi di potere e alienazione. Perché il piccolo gruppo con le caratteristiche suddette ci protegge nel nostro processo di cambiamento individuale; è più forte nei momenti di cambiamento della realtà. È il luogo dove il potere può essere delegato, e poi ritirato; distribuito equamente o a rotazione. Conseguentemente è lo strumento per riprendere la libertà espressiva smarrita; la creatività umiliata dall’ingabbiamento nei ruoli. È lo strumento che attutisce il senso di colpa nei confronti della struttura che ci apprestiamo ad innovare; ci compensa della perdita dell’affetto dell’autorità con cui entriamo in conflitto; ci difende dalla eventuale repressione; ci trasforma da devianti in minoranza.
È il luogo in cui sperimentiamo l’autogestione.

8. L’organizzazione

Se l’obiettivo è più ambizioso (rivoluzione, liberazione, partecipazione sociale, lotte operaie, ecc.) il piccolo gruppo non basta più. Occorre un collegamento fra migliaia di gruppi. Un’organizzazione? Dobbiamo chiederci se è possibile avviare una organizzazione sociale alternativa non solo nei fini, ma anche nei metodi.
Oppure il rapporto padre-figlio, lo sfruttamento del plusvalore di potere sono fenomeni intrinseci ad ogni organizzazione "efficace"?
Non è il caso di andare troppo oltre in questo quesito, perché esso attinge con evidenza alla sfera del metastorico, della fede.
Il dilemma è quello fra Bene e Male, fra il buon selvaggio e l’homo homini lupus. È forse solo lecito porci la domanda se ciò che può essere partecipativo, adulto e fraterno in un microgruppo (a certe condizioni) non diventi regolarmente autoritario, infantile e repressivo in una organizzazione macrosociale. E chiederci anche se non sia normale che tanto più vasto è il raggio d’azione di un individuo, tanto maggiori sono le mediazioni con la realtà che deve fare, e quindi le limitazioni alle proprie soddisfazioni istintuali.
Questo significa che la libertà, l’amore, la realizzazione possono esistere solo nelle microdimensioni? Ma queste cose che sono se non momenti transeunti, o artificiali o marginali nella realtà?
Forse libertà, amore, autorealizzazione sono il sogno, l’utopia, l’obiettivo convenzionale di una lotta, di una ricerca fine a se stessa? Sono la lepre nella corsa dei cani o la cima di una montagna, remota, ma raggiungibile?

9. Fiducia nell’uomo

Siccome la vita tutta è immersa nell’ambivalenza, non pensiamo certo di sospendere la nostra azione, solo in attesa che sia data una risposta ai quesiti. Con un atto di fede, accettiamo tutte le convenzioni ottimistiche: da una parte perché questa accettazione ci solleva dal senso di colpa di avere disoccultato il ruolo di sfruttamento che il nostro padre-autorità gioca verso di noi; in secondo luogo perché questo ci permette di avere una buona opinione di noi stessi e di assegnarci una missione da compiere. Se l’uomo è cattivo e i valori sono miraggi, allora nulla serve a nulla; il padre è cattivo e deve essere punito, ma anch’io sono malvagio ed è giusto che egli mi punisca: è il generalizzato masochismo medievale. Se l’uomo è buono, tutti lo siamo: c’è solo qualche malvagio e qualche errato sistema di organizzazione sociale. Trovare i colpevoli e punirli, gli errori ed eliminarli: è la sadica missione che ci siamo assunti nella nostra epoca. Ma è anche la nostra missione etica.

10. L’animatore

L’unità di misura del cambiamento sociale è dunque il piccolo gruppo. Ma non è da credere che in esso i postulati e le convenzioni siano cosa acquisita dall’inizio e sempre in funzione. Anzi, la convenzione dell’uguaglianza, della uguale distribuzione del potere, dell’obiettivo comune sono inesistenti proprio all’inizio della vita del gruppo: questi sono fini del gruppo al pari dell’obiettivo ufficiale su cui gli individui si sono uniti.
Qualcuno deve dare vita al gruppo, cioè promuoverlo; qualcuno deve condurlo nei primi passi; deve rappresentare la sintesi del gruppo; deve garantire il flusso delle comunicazioni e delle informazioni verso tutti i membri; deve vegliare sui fenomeni negativi che gli individui mettono in atto contro il gruppo (che essi amano e odiano nel contempo); deve ricordare al gruppo l’obiettivo e la vocazione a realizzarlo con "efficacia". E costui ha una miriade di termini che lo indicano: animatore, educatore, insegnante, capogruppo, conduttore, trainer, leader, rappresentante, delegato, ecc. Ma il ruolo che egli gioca quasi sempre è uno solo: quello di padre/autorità. Egli offre sicurezza, e chiede potere.
Un potere gestito su una vasta gamma di toni: dal comando, alla manipolazione, alla convinzione, all’influenza, all’orientamento.
Poiché a questo punto la larga schiera di rogersiani sarà tentata di cambiare articolo, sono costretto a fare qualche breve osservazione su il rapporto fra direttività e non-direttività.

11. Direttività e non

Se intendiamo non-direttività come assenza di manipolazioni dell’educatore verso l’educando, dico subito che questa non esiste.
L’animatore, l’insegnante, l’educatore hanno una ideologia politica, hanno precise idee su cosa sia o debba fare un uomo, e in base a queste essi operano. Se non lo facessero, il loro lavoro sarebbe inutile. Se non-direttività significa uso di tecniche attive, partecipative o maieutiche, possiamo concordare sul fatto che essa è solo un modo di fare passare meglio un messaggio: che dunque non possiamo accettare tout court, ma in base ad un giudizio di valore sul messaggio.
Il rapporto educativo, di leadership o di rappresentanza è dunque manipolativo, nel senso che c’è qualcuno che decide per altri o influenza l'altrui decisione, in base a idee personali. Va detto che raramente queste idee personali equivalgono ad interessi personali. Il più delle volte si tratta solo di gestione "pura" del potere, allo scopo di imporre la visione del mondo in cui si crede o di sentirsi "padre" di un gruppo.
D’altro canto questa assunzione del ruolo di padre da parte del leader o dell’animatore, è una delle condizioni perché il gruppo si emancipi dai condizionamenti personali precedenti. Il leader è un padre alternativo, nella fase in cui il gruppo non è ancora funzionante al punto da esserlo esso stesso.
Il filo che passa tuttavia fra la gestione corretta del ruolo del leader/ educatore/animatore e lo sfruttamento del plusvalore di potere che questo ruolo consente, è assai sottile. Questa figura, va detto subito, è un rimedio non ottimale e di transizione. Per passare da un condizionamento e da una sudditanza dell’individuo da parte dell’organizzazione sociale all’autogestione, è necessaria una serie di stadi intermedi di cui uno è la sudditanza al leader. Come può essere agito correttamente questo ruolo? Solo mediante alcuni correttivi.
E si deve parlare di correttivi perché la assunzione di un ruolo emergente all’interno di un gruppo, porta con sé inevitabilmente la tentazione di restaurare il rapporto padre/figlio come permanente.
Il primo correttivo è la disoccultazione dei pericoli connessi al ruolo dell’animatore. Il gruppo va messo costantemente sull’avviso di ciò che accade nel suo rapporto coll’animatore; dello stato del processo di crescita e di emancipazione di ciascun membro; dei meccanismi (consci o inconsci) che l’animatore mette in atto per manipolare il gruppo.
Questo costringe l’animatore ad una autoanalisi permanente che lo porti a mettersi costantemente in gioco nel gruppo e che gli impedisca di considerare come "del gruppo" le sue resistenze, la sua ideologia, le sue proiezioni.
Un secondo correttivo è il controllo sociale. L’animatore deve essere in costante interazione con quelle forze sociali (organizzazioni lavoratori, gruppi di base, comitati di quartiere, ecc.) cui il gruppo fa in qualche modo riferimento. Questo contatto costante permette all’animatore di verificare la propria azione, al di fuori di quel senso di onnipotenza che la responsabilità di un gruppo comporta quasi sempre.
Infine, poiché i primi due correttivi non sono garanti della non manipolazione, esiste una verifica a posteriori dell’azione dell’animatore: il buon funzionamento del gruppo anche in sua assenza. La transitorietà del ruolo è la vera discriminante fra l’animatore che gestisce un plusvalore di potere, ed un animatore che educa.

12. Educazione e autogestione

Perché è proprio l’educatore il fine che deve essere sotteso ad ogni ruolo emergente. Intendendo per educazione l’acquisizione della capacità di espressione e di autorealizzazione, la emancipazione dal padre, l’autogestione.
Da una società che ci eterogestisce possiamo passare all’autogestione, attraverso l’esperienza di un piccolo gruppo con la presenza di un animatore. Schematicamente:
Istituzione Piccolo gruppo Individuo Adattamento
(eterogestione) Animatore (autogestione) Disadattamento
(partecipazione) Organizzazione
Ma anche qui ci vuole chiarezza. Non dobbiamo mai dimenticare che il piccolo gruppo (politico, di studio, di ricerca, di lavoro, di fede,
ecc.) è una realtà da laboratorio, è una esperienza parziale e transeunte. Confonderlo con la totalità della realtà, trovarsi realizzati e soddisfatti solo in esso, è assai pericoloso.
C’è il rischio che una tale esperienza educativa, il cui fine è produrre un vissuto funzionale all’autogestione nella realtà, assuma la veste di madre protettrice coi partecipanti in permanente dipendenza. Il piccolo gruppo come terapia, l’animatore come padre/medico/prete possono avere una funzione positiva (e spesso i partecipanti ad un gruppo chiedono solo questo) purché in via transitoria.
Ogni gruppo deve avere un obiettivo parziale ed un tempo d’esecuzione. Al termine dell’esperienza l’obiettivo ufficiale deve essere raggiunto così come deve essere aumentata la capacità di autogestione di ciascun membro. Se ciò non avviene può essere per due motivi: incapacità dell’animatore o troppo pesanti condizionamenti esterni.
Al termine della vita del gruppo, ciascun membro deve dunque aver acquisito una maggior capacità di autogestione. Non possiamo non chiederci che fine essa faccia e come possa essere messa a frutto. Se la società non fosse quella "makkina" repressiva e alienante che conosciamo e se queste esperienze di gruppi autogestiti fossero diffuse, potremmo intravedere un cambiamento sociale a breve termine. Invece la manipolazione, la repressione, la alienazione esistono e le esperienze di autogestione reale sono rarissime.
Risultato: le capacità di autogestione dell’individuo dopo una intensa esperienza vengono disperse mediante due meccanismi precisi.
Da una parte il sistema assorbe, ottunde, soffoca il vissuto esperenziale attraverso la sua impermeabilità. L’individuo, dopo i primi tempi dell’esperienza, perde i benefici acquisiti, se li dimentica fino a rientrare totalmente nel vecchio ruolo adattivo.
Dall’altra l’individuo che resiste irriducibilmente e si rifiuta di ritornare ai ruoli precedenti, viene colpito dalla repressione dura, dalla emarginazione, dal disadattamento. In entrambi i casi l’individuo ricerca periodicamente nuove situazioni da laboratorio, di tipo terapeutico o compensativo. Che fare? E' tutto inutile? Questa domanda è normale per operatori sociali, animatori, formatori, leaders.
Al momento attuale sembra esserci una sola risposta efficace, anche se tutta da verificare: l’organizzazione.
Non si trasforma un sistema organizzativo se non mediante l’organizzazione, il collegamento fra quanti hanno preso coscienza ed hanno vissuto una esperienza di autogestione.
Ma è una organizzazione tutta da inventare attraverso la verifica se sia possibile conciliare l’autogestione con l’organizzazione.

Post scriptum: una metodologia per la critica

  • Alcuni potranno osservare che molte asserzioni sono poco dimostrate e poco approfondite; è vero: questi sono appunti per un libro da scrivere in cui ci sarà lo spazio per le dimostrazioni

  • Altri noteranno l’assenza di citazioni e di riferimenti; anche questo è vero, ma è voluto. Ritengo il "citazionismo" una ingenuità della nostra cultura: sia che la citazione serva a rafforzare là verità di un’idea (come se non si trovassero citazioni per ogni cosa); sia che essa voglia riferire la fonte e l’iter da cui la frase è stata generata (e allora perché non partire da Platone, i Pitagorici, la Bibbia?); sia infine se si volesse distinguere le cose prese da quelle proprie (e allora quali idee non avrebbero una citazione).

  • Altri ancora osserveranno che l’articolo tocca troppi argomenti senza decidersi a quale disciplina vuole fare riferimento. A costoro sottolineo che l’equazione scienza disciplinarietà ha avuto solo lo scopo di creare una divisione del sapere, con ruoli e caste annessi.

  • Infine alcuni criticheranno l’assenza di una demarcazione fra le dichiarazioni scientifiche e quelle etico-politiche: a loro chiedo di dimostrare che tale demarcazione esiste.

*Estratto da ANIMAZIONE SOCIALE" - esperienze e prospettive- n. 11 - luglio-settembre 1974- ISAMEPS- Milano