LE ATTIVITA' DI GRUPPO - ASPETTI PSICOSOCIOLOGICI*

L'uso del gruppo come metodo d'insegnamento è una scoperta abbastanza recente nel nostro paese.
Nel quadro disparante del nostro sistema scolastico, le novità pedagogiche vengono utilizzate come medicine magiche, da una malato che in realtà non fa niente per affrontare la sua malattia dalle radici.
Il gruppo, come l'istruzione programmata, gli audiovisuali e la ricerca, è introdotto nella scuola con la speranza che si dimostri lo strumento risolutore della sua crisi.
E' importante allora riflettere sul significato che l'attività di gruppo deve avere, affinchè possa realmente essere uno strumento pedagogico.

IL GRUPPO: METODO E CONTENUTO DELL'ATTIVITA' PEDAGOGICA

Di solito gli insegnanti, di fronte al fallimento del lavoro tradizionale, si attaccano alle metodologie innovative con l'obiettivo di lasciare inalterato il loro ruolo e di facilitare il vecchio modo di insegnare attraverso nuove tecniche.
Le attività di gruppo, se intese solo nel loro rispetto tecnico, finiscono per dimostrarsi fallimentari e per aumentare la disperazione degli educatori.
Il gruppo infatti non è solo un metodo di lavoro, non è solo una tecnica per apprendere in modo nuovo le cose vecchie.
Il gruppo è soprattutto un nuovo contenuto pedagogico, cioè un nuovo modo di intendere il processo di apprendimento. L'insegnamento tradizionale si basa su alcuni presupposti:
a- gli allievi non sanno e il maestro sa
b- ciò che gli allievi devono imparare è già deciso dai programmi e dall'idea che il maestro ha dell'apprendimento
c- il maestro insegna a tutti le stesse cose allo stesso modo, perciò chi non impara è svogliato o mentalmente insufficiente
d- chi impara è premiato, chi non impara è punito (bocciato, trascurato, deriso, ecc.)
e- ogni allievo ha l'obiettivo fondamentale di dimostrare la sua abilità mentale e manuale, oltre che il suo comportamento disciplinato.
Su queste premesse per decenni la scuola ha basato la sua attività, arrivando ai livelli di selezione e dequalificazione che sono noti a tutti. Tanto per fare degli esempi: nella provincia di Milano ci sono 180.000 analfabeti, in Italia circa il 25% dei bambini non arriva al diploma della III media e circa il 70% cessa di studiare al termine della scuola Media. I movimenti contestativi da una parte, l'aumentata coscienza degli insegnanti dall'altra, hanno contribuito a mettere in crisi i presupposti tradizionali.
Gli insegnanti hanno scoperto l'insufficienza delle tecniche pedagogiche consolidate: gli allievi mostrano infatti minore interesse per i contenuti tradizionali, maggiore indisciplina e maggiori insuccessi.
Ecco allora la ricerca affannosa di tecniche adatte a superare gli scogli del disinteresse e dell'indisciplina. Si tenta la strada delle tecniche di coinvolgimento attivo: ricerca, drammatizzazione e lavoro di gruppo.
L'insegnante non parla più dei sette re di Roma, ma invita gli allievi a sfogliare libri di casa e della biblioteca di classe alla ricerca di notizie e fotografie sull'argomento; poi magari fa realizzare disegni del Foro Romano. Nei casi più arditi i bambini vengono invitati a recitare la diatriba fra Romolo e Remo. Se poi le varie fasi del lavoro (dalla realizzazione dei tabelloni storici, alla recita) vengono fatte da gruppi di allievi, l'insegnante è convinto di essere punto avanzato della rivoluzione pedagogica.
Dopo i primi successi, che hanno fruttato gli elogi della Direzione Didattica e l'ammirazione generale nella mostra di fine anno, purtroppo l'insegnante comincia a ritrovare disinteresse e indisciplina. Alcuni alunni sono ancora più turbolenti e lenti nell'apprendere, deturpano magari il tabellone delle litografie , ricoprono di epiteti il povero Remo, e fanno scena muta durante le interrogazioni.
L'insegnante innovatore si sente tradito e incompreso, rinuncia allo smalto progressista e non trova di meglio che tornare ai sistemi tradizionali, che "almeno garantiscono la disciplina". Nei casi ostinati, è lo sbalordimento e la ricerca dello psicologo che spieghi come interessare alle innovazioni didattiche gli allievi più refrattari.
Le attività di gruppo hanno una sola possibilità di essere efficaci, che deriva dal considerarle un contenuto pedagogico prima che un metodo. Solo se vengono rifondati i presupposti della scuola è possibile che il gruppo diventi una vera innovazione.
I nuovi presupposti pedagogici, sui quali può innestarsi il lavoro di gruppo, sono i seguenti:
a - gli allievi sanno già molte cose, altre le ignorano; anche l'insegnante sa e non sa;
b - l'unica cosa che deve certamente essere imparata è il metodo per apprendere: tutto il resto è da scoprire solo in risposta ai bisogni culturali e psicologici degli allievi.
c- il maestro aiuta a conoscere la realtà offrendo agli allievi contributi diversi in base ai diversi bisogni: se qualcuno non impara, è necessario trovare un altro modo di insegnare
d- gli allievi hanno il compito di imparare insieme, aiutandosi l'un l'altro ed esprimendo tutta la creatività in loro possesso.
La differenza tra i due modelli di scuola è radicale. In quello tradizionale l'insegnante trasmette qualcosa che è ritenuto importante e che l'allievo deve imparare; la classe non è che un difficile assieme di allievi. Nel modello innovativo nessuno insegna, la classe come gruppo impara ricercando e collaborando e l'insegnante è una risorsa disponibile. Nei modello tradizionale la cosa più importante è che gli allievi Imparino dei contenuti, nel nuovo modello invece ciò che conta è che i bambini imparino un metodo (la ricerca) e uno stile di vita (quello socializzato). Il lavoro di gruppo non è dunque un metodo, ma il contenuto stesso dell'apprendimento.
Gli allievi vengono aiutati a lavorare in gruppo perché conoscano che l'apprendimento è ricerca collettiva, rapporto interpersonale e relazione sociale.
In tal modo il gruppo diventa l'unità di insegnamento in cui si supera l'individualismo, la competitività, la dipendenza dall'autorità. Non c'è niente da imparare da soli, se non per aiutare il gruppo, non ci sono gare da fare, non c'è qualcuno che sa in assoluto.
Se c'è un problema come il disinteresse e la disciplina è il gruppo che deve farsene carico, naturalmente con l'aiuto delle capacità dell'insegnante. Ciò che si studia, si ricerca o si realizza deve essere scelto dagli allievi o almeno tratto dai loro reali interessi cognitivi ed emotivi. L'insegnante non valuta, esprime parere e offre consigli; è il gruppo che si valuta, riflettendo sul lavoro che realizza. Non c'è alcun programma da portare avanti e, qualsiasi cosa si faccia, è indispensabile soffermarsi spesso per riflettere insieme sul come si sta lavorando, sulla soddisfazione individuale e collettiva, sulle ragioni dell'impegno o del disimpegno.
Il gruppo è il luogo in cui ciascuno può dire ciò che pensa perché tutti accettano pareri e nessuno teme di venir giudicato. Dove tutti sono apprezzati per ciò che sono e sanno, dove ciascuno da il suo contributo, finalizzato ad aiutare il gruppo.
È chiaro dunque come le attività di gruppo non siano una tecnica da inserire nel tessuto scolastico abituale ma un nuovo modo di fare scuola che chiama in causa il ruolo del docente, gli obiettivi e i contenuti educativi, la stessa organizzazione scolastica. 

DINAMICHE DI GRUPPO

È utile chiarire che per gruppo non si intende solo un insieme di persone. Perché si possa parlare di gruppo è necessario che esista un insieme di ruoli in interazione reciproca, con obiettivi comuni, e soprattutto con il senso dell'appartenenza ad una entità superindividuale.
Tutto ciò non avviene semplicemente restando nella stessa stanza, ma realizzando una serie di condizioni cui l'insegnante deve offrire la massima attenzione.
Uno dei primi fenomeni in un gruppo è quello che Moreno definì "sala degli specchi" per cui ciascun membro si rispecchia negli altri, osservandone le reazioni e gli atteggiamenti come risposta al proprio modo di essere e di agire. Un altro fenomeno è il sorgere della relazione sociale, cioè la percezione dell'esistenza di un gruppo: i membri parlano in termini di "noi", si formano un linguaggio e delle norme comuni. Poi ci sono i silenzi, cioè un modo particolare di comunicare il dissenso, oppure il timore di essere giudicati, o il disinteresse.
Due fenomeni spesso concomitanti sono l'identificazione di un capro espiatorio e l'emergenza di una leadership. Nel primo le aggressività del gruppo sono convogliate su uno dei membri, spesso il più debole; nel secondo invece i membri del gruppo riconoscono ad uno l'iniziativa e l'autorità, aumentando attraverso il leader la loro coesione.
Un fenomeno consueto è la formazione di sottogruppi magari in competizione fra loro. Infine spesso un gruppo identifica dei nemici esterni sui quali proiettare tutte le parti negative: questo permette di vedere il gruppo come buono e di aumentare una coesione difensiva.
Tutti questi fenomeni possono essere fisiologici o patologici, cioè funzionali alla vita del gruppo e alla crescita dei singoli membri, oppure disfunzionali.
L'ipersocializzazione può diventare un freno all'autonomia individuale; la leadership può essere un'occasione di deresponsabilizzazione dei singoli membri; il capro espiatorio può divenire un Jeu de massacre; i sottogruppi esprimere una tendenza centrifuga e i membri esterni diventare una ossessione persecutoria.
Il ruolo dell'insegnante è di importanza basilare per lo sviluppo fisiologico del gruppo, ed i suoi interventi sono quasi sempre risolutivi.
Proprio nei confronti dell'insegnante si sviluppano due fenomeni tipici come la dipendenza e la controdipendenza. Essendo egli l'autorità ufficiale del gruppo-classe, verso di lui gli allievi vivono un rapporto tale per cui accettano ogni cosa in quanto proveniente dall'autorità (dipendenza) oppure rifiutano tutto per lo stesso motivo (controdipendenza).
Entrambe le posizioni sono ovviamente immature e ostacolano la crescita di gruppi basati fondamentalmente sull'autonomia (inter-dipendenza).
Naturalmente la situazione di gruppo crea nei singoli notevoli resistenze, sia perché riversa su ciascuno la responsabilità della gestione della realtà sia perché costringe gli individui ad uscire dal proprio isolamento.
Queste resistenze vengono definite " difese " e possono essere messe in atto dai singoli o da tutto il gruppo collusivamente per ostacolare la propria realizzazione. Sostanzialmente queste difese esprimono, secondo quanto dice Spaltro:

— Il rifiuto dell'ansia (cioè della paura del coinvolgimento individuale in quella " voragine sociale " che, nel " sentire " di alcuni, è il gruppo).
— Il rifiuto delle differenze individuali (che costringerebbero al confronto e quindi al cambiamento dei singoli).
— La personalizzazione dei conflitti (il dissenso trova la sua origine nella colpa di qualcuno, e non nella situazione del gruppo che è l'entità più minacciante).
All'interno del gruppo che si sta costituendo, si strutturano ruoli, comportamenti e atteggiamenti assai poco funzionali all'attività collettiva. Essi possono essere così elencati:
a - aggressività, attacchi diretti fra i partecipanti, insoddisfazione per ciò che avviene nel gruppo;
b- opposizione, ostinazione da bastian contrario, rimessa in discussione di decisioni scontate;
c- esibizionismo, riferimenti a se stessi, monopolio degli interventi, continui richiami all'attenzione;
d - superiorità, disinteresse, distacco, sarcasmo, distrazione;
e - dipendenza, ricerca di appoggi, richiesta di aiuto e sfiducia in sé;
f- dominazione, autoritarismo, prevaricazione nelle decisioni.
Al contrario si osservano spesso atteggiamenti opposti assai funzionali alla costituzione del gruppo ed al raggiungimento degli obiettivi.
Fra gli altri annotiamo:
a - incoraggiamento, adesione, solidarietà, sostegno;
b - ricerca dell'accordo, mediazione, pacificazione;
c- armonizzazione delle differenze, sdrammatizzazione dei conflitti, riduzione della tensione;
d - stimolazione, proposte di nuove idee, suggerimenti, sintesi;
e - informazione, richiesta di chiarimenti, offerta di materiale sussidio;
f- organizzazione pratica, preparazione, elencazioni di decisioni.
È fin troppo evidente che nella classe il maestro deve rifarsi a questi ultimi comportamenti, essendo formalmente il polo primario dell'attenzione degli allievi.
Malgrado ciò è utile anticipare che l'insegnante non può limitarsi ai comportamenti che facilitino il gruppo ma deve preoccuparsi che tali comportamenti siano acquisiti giorno per giorno dai singoli allievi.

IL RUOLO DELL'INSEGNANTE

Non c'è alcun dubbio che l'insegnante abbia nella classe un ruolo formale autoritario: gli allievi si aspettano di imparare da lui, vedono in lui la fonte dei premi e delle punizioni, si preoccupano di avere un buon rapporto con lui.
In una parola diciamo che gli allievi " dipendono " dagli insegnanti.
L'insegnante deve tener conto di queste aspettative che la cultura tradizionale e familiare hanno instillato negli allievi, per agire in stretta conseguenza.
Il maestro tradizionale ha meno problemi: si adatta alle aspettative degli alunni e gestisce il suo ruolo in maniera autoritaria e formale. Questo gli permette la sicurezza derivante dal fare "ciò che gli viene richiesto", la gratificazione conseguente al potere, e una vita di rendita culturale concessa dal privilegio di non essere mai messo in discussione.
Allora il maestro insegna (dal latino: segna dentro), premia e punisce gli allievi, intreccia con loro rapporti di tipo autorità-dipendente. Non è detto che questo atteggiamento autoritario sia crudele o violento. La gamma è vastissima e contiene un misto di violenza, paternalismo, protettività, affetto..A questi atteggiamenti il bambino reagisce in molti modi, tutti raggruppabili in una sola definizione: la dipendenza. Cioè il bambino impara che il rapporto principale è quello con l'autorità e che la sua autonomia è solo una funzione della permissività dell'insegnante.
È da queste ultime osservazioni che partono gli insegnanti innovatori e progressisti, quelli che magari vogliono realizzare un apprendimento di gruppo. L'obiettivo è quello di facilitare l'apprendimento dell'autonomia, di privilegiare i processi di socializzazione, di smitizzare il ruolo dell'autorità.
Alla chiarezza degli obiettivi generali non corrisponde una sufficiente precisione nella gestione del ruolo e nella conoscenza delle metodologie innovative.
Il primo classico errore è quello di passare alla più larga permissività. Per rifiutare il ruolo autoritario, si rifiuta il ruolo tout court; si passa da una presenza prevaricatrice ad un'assenza. La frase " faccio fare ai bambini quello che vogliono " è sintomo di ingenuità e spontaneismo, anche se viene detta con un tono orgoglioso e barricadiero. Un'educazione totalmente permissiva sarebbe discutibile persino in una società ed in una scuola molto meno chiuse delle attuali.
L'insegnante deve partire dall'osservazione che il suo ruolo formale è autoritario, modellato in tal modo da una società e da una scuola che lo sono ancora di più; che le aspettative degli allievi sono in tal senso; e che i cambiamenti sono possibili se limitati, graduali e condotti con molta serietà scientifica. Il processo di evoluzione nel rapporto fra autorità e gruppo è il corrispettivo dell'autonomia di lavoro del gruppo stesso.
Genericamente possiamo identificare tre fasi. 

FASE DELL'AUTORITÀ

Nella prima fase il gruppo è centrato sull'autorità, le comunicazioni sono a stella, (cioè dal singolo allievo verso li centro e viceversa), le decisioni sono prese dall'autorità, l'autonomia è impossibile. L'insegnante in questa fase gestisce il ruolo classico ma deve tentare di guadagnarsi un'autorità sostanziale in aggiunta a quella formale è, pur gestendo un ruolo autoritario, deve preparare la classe ad un cambiamento: ottenendo la fiducia degli allievi, offrendo una cultura vicina alle motivazioni dei bambini, gestendo il meccanismo premi-punizioni secondo i parametri di autonomia e socialità invece che secondo quelli di obbedienza e conoscenza.
La fiducia, elemento cardine del rapporto pedagogico, è raggiunta quando gli allievi sentono di poter contare sull'esperienza dell'insegnante, mentre sentono che egli non ne farà uso per giudicarli o punirli. Questa fiducia è il nodo centrale dell'ambiguità dell'insegnante che valuta.
Da una parte l'allievo non sa ed è portato a chiedere all'insegnante; dall'altra parte però l'allievo sa che domandare significa ammettere l'ignoranza e quindi essere giudicati negativamente; il risultato è l'assenza di fiducia, nel senso che l'allievo " non si fida "dell'interlocutore e quindi ammutolisce oppure finge. L'insegnante di fronte al silenzio o alla palese finzione, insiste nell'atteggiamento inquisitorio e giudicante col risultato di confermare la fondatezza della sfiducia che l'allievo ha in lui. È una classica relazione simmetrica che provoca successivi allontanamenti fra le parti.
La riconquista della fiducia passa attraverso la rottura dell'ambiguità insegnante-giudice, e la scelta di limitare il giudizio ad un aiuto per l'allievo. L'unico messaggio che produce fiducia è quello dell'aiuto. La cultura vicina ai bisogni degli allievi, è quella che essi stessi indicano in risposta ai quesiti che emergono dalla loro vita, dalla loro condizione sodale e familiare.
È tutto da dimostrare che conoscere come è morto Attilio Regolo sia più utile che sapere come è nata una sorellina; sapere perché i plebei litigavano con i patrizi, sia più edificante che sapere perché i fratelli più grandi si picchiano; conoscere i prodotti del Brasile sia più interessante della produzione della fabbrica vicino alla scuola. Gli esempi sarebbero infiniti.
Basta sottolineare che l'uomo apprende ciò che gli serve in risposta ai problemi che vive: una scuola che non offre risposte alle domande degli allievi, non serve. In questa logica gestire il meccanismo premi e punizioni non significa altro che offrire rinforzi a certi comportamenti piuttosto che ad altri.
E questi rinforzi non vengono offerti a chi studia o a chi è più disciplinato, ma per lo più a chi mostra un atteggiamento autonomo e collaborativo.
Il che non vuol dire punire cioè reprimere tutti gli altri comportamenti, ma significa offrire un modello o una scala di valori che vedano, al vertice, l'autonomia e la solidarietà. 

FASE DELLA CONSAPEVOLEZZA DI GRUPPO

Nella seconda fase il gruppo è centrato sul gruppo, le comunicazioni sono circolari (cioè tutti interagiscono fra loro), l'autorità fa parte del gruppo, le decisioni sono prese insieme, l'autonomia aumenta.
Questa fase di transizione è la più difficile. L'insegnante oscilla fra autoritarismo, manipolazione e permissività. Nei momenti di maggior ansietà l'insegnante ha la tentazione di riappropriarsi della sua autorità; altre volte agisce paralizzato dal timore di coartare e manipolare gli allievi; altre volte ancora si distacca psicologicamente.
Ai primi comportamenti autonomi l'insegnante soffre una crisi abbandonica, si sente deprivato della stima e dell'amore; la socializzazione degli allievi è vissuta come esclusione dell'insegnante e l'emergere di leaders fra gli allievi diventa uno stimolo alla competizione.
In questa fase troviamo le maggiori responsabilità dell'insegnante. Egli sa che a questo punto si verificano le dinamiche prima descritte e deve agire per facilitarne il corso, in ordine agli obiettivi prefissati. Il rispecchiamento reciproco fra gli allievi è facilitato se anche il maestro si apre senza inibizioni alla verifica, se incoraggia la comunicazione delle sensazioni e dei vissuti.
Il sorgere della consapevolezza del gruppo è affrettato se il docente insiste sulla necessità di lavorare insieme, di vedere in tutti le potenzialità inespresse, di coinvolgere i compagni, di andare a fondo col dialogo.
Il silenzio di alcuni non può certo essere superato con l'invito a parlare che ha sempre un sapore coercitivo e inquisitorio. Al contrario può essere superato con la creazione di un clima rassicurante, con la trattazione di argomenti interessanti, con il rispetto del silenzio, con l'interesse per ciò che il "silenzioso" trasmette al gruppo.
I sottogruppi devono essere invitati a collaborare mediante la proposta di compiti che costringano alla integrazione. Mentre la individuazione di un nemico esterno può essere demistificata avvicinandolo e conoscendolo meglio.
Il capro espiatorio può essere difeso e rivalutato con l'assegnazione di responsabilità che egli può sopportare con successo.
Infine, la leadership di un allievo deve essere appoggiata, ma orientata verso l'assunzione di responsabilità funzionali.
Il momento in cui emerge questa leadership, segnala un buon passo in avanti del gruppo verso l'autonomia. L'autorità esterna e formale dell'insegnante è affiancata da una autorità interna e formale , cui anche il maestro si adegua nella fase di organizzazione del lavoro. Qui l'insegnante può agire in maniera benefica sul rapporto fra leader e gruppo, evitando che il capo diventi oppressivo ma nel contempo insegnando che il corretto utilizzo di una leadership funzionale è un segno di maturità.

FASE DEL GRUPPO AUTONOMO

Nella terza fase, quella finale, il gruppo è orientato al compito, cioè funziona in modo autonomo ed efficiente; le comunicazioni sono circolari; la leadership, quando c'è, è funzionale; l'insegnante è una risorsa disponibile, un consulente del metodo e dei contenuti; le decisioni sono prese dal solo gruppo. Tutti gli eventuali problemi che sorgono al gruppo vengono gestiti dal gruppo stesso.
E' ovvio che questo è il punto di arrivo del lavoro pedagogico, un obiettivo che può essere raggiunto nel corso di un anno o di un ciclo.
Se questo non si verifica in tutto o in parte, l'insegnante non deve buttare a mare l'innovazione ma deve riprendere con pazienza l'analisi e rivedere le tecniche.
Quando gli allievi sono arrivati a questa fase significa che hanno appreso una modalità dialettica di rapporto con l'autorità, la fiducia in sé e negli altri; la dimestichezza con situazioni di autonomia; la capacità di collaborare, quindi di comunicare e di esprimersi; la volontà di orientarsi ad un compito e di realizzarlo; la facilità di decidere pur senza trascurare il metodo partecipativo.
Che importanza può avere se non conoscono tutte le capitali europee o la data della sconfitta di Waterloo? 

TECNICHE DI GRUPPO

Chiarito il ruolo dell'insegnante, è naturale domandarsi quali sono gli aspetti tecnici di questo ruolo.
Il quesito è giustificato ma insidioso nel contempo. Come ho spiegato all'inizio, le attività di gruppo non possono essere considerate un espediente ma il risultato di una vera e propria "rivoluzione pedagogica " che coinvolge gli atteggiamenti e i comportamenti del maestro oltre che della organizzazione scolastica complessiva. Dietro una domanda sulle tecniche (e questo è fin troppo evidente nei seminari di formazione degli insegnanti) si cela spesso la volontà di trascurare il cambiamento effettivo, limitando l'azione pedagogica allo sfoggio di " trucchi " sempre nuovi; il maestro-mago che fa uscire sempre nuovi conigli dal cappello.
Se questo è vero, è anche vero che le capacità tecniche sono indispensabili per la conduzione di un gruppo, e non si può fare a meno di queste in nome di una semplice fede nel valore del cambiamento. La storia della sperimentazione è costellata di fallimenti che traggono origine da una insufficienza tecnica.
Possiamo dividere le tecniche in base alle varie fasi del rapporto fra maestro e gruppo- classe La prima è quella dell'approccio, cioè quella che apre il rapporto e serve ad esplorare le situazioni individuali e di gruppo.
Non mi riferisco qui alla ricerca preliminare sull'ambiente sociale familiare e sulla storia scolare precedente, che sono tentativi di descrizione oggettiva e indiretta dei singoli allievi. Penso piuttosto all'approccio relazionale, in classe, (qui ed ora) fra gli allievi e fra questi ed il maestro.
Questa è una fase delicatissima il cui esito può pregiudicare tutto il lavoro seguente. Si tratta di facilitare la instaurazione di veri rapporti e di avviare un senso di appartenenza al gruppo, che è una condizione fondamentale per lo sviluppo della socializzazione e per la realizzazione del principale compito di una classe: lo sviluppo cognitivo attraverso l'apprendimento di contenuti e metodi. Un rapporto corretto non può prescindere da una serie di fattori come: la percezione reciproca, le motivazioni e le aspettative individuali, e gli atteggiamenti. 

IL PRIMO APPROCCIO

L'unico modo utile per trasmettere queste nostre componenti è la comunicazione. Occorre quindi parlare molto, o almeno trasmettere messaggi corporei, espressivi, mimici: solo così si possono aprire relazioni. La comunicazione è facilitata da un clima di fiducia,che solo il maestro può instaurare vista l'autorità che rappresenta. Deve essere proprio lui ad aprirsi per primo, presentandosi, raccontando la sua storia passata, le sue aspettative nei confronti del lavoro che inizia, i suoi obiettivi. Molti insegnanti affermano che occorre scindere il professionale dal privato, e veicolano in tal modo una immagine burocratica di sé che scoraggia l'apertura emotiva degli allievi nei loro confronti. La scuola come mercato per lo scambio di cultura astratta, da cui la sfera emotiva, privata, familiare deve essere separata, è la scuola dell'antisocializzazione. L'insegnante deve aprirsi e invitare i bambini a fare altrettanto. Qui entra in gioco una seconda capacità: quella di analizzare anche le comunicazioni oscure, ambigue o indirette. Il bambino che non si apre esprime certamente qualcosa: paura, sfiducia, disinteresse, introversione o semplice aridità di linguaggio. L'aggressività esprime un messaggio, così come la posizione del banco. Occorre leggere tutti questi messaggi e interpretarli, ma senza bollarli con giudizi di valore.
Questa prima fase dell'approccio non ha durata prestabilita, può durare anche per tutto il primo mese dell'anno e può essere ripresa ogni volta lo si ritenga utile.
Lo strumento per questo primo approccio non è necessariamente la parola, un mezzo di comunicazione difficile, spesso insufficiente e quasi sempre selettivo. Si può approfondire l'area della conoscenza interpersonale mediante una vasta gamma di strumenti, alcuni dei quali resi più facili dalle loro connotazioni ludiche.
Intendiamo dire che oltre alla narrazione e alla discussione, è possibile comunicare attraverso lo scritto, o attraverso canali più immediati come il disegno, il mimo, la drammarizzazione. Si può chiedere ai bambini di disegnare la loro vita, o miniare un episodio saliente, o ancora invitarli a drammatizzare fantasticamente situazioni e personaggi per loro importanti.
È impressionante la facilità con cui i bambini sanno esprimersi attraverso questi canali, meno minaccianti della parola.
Più difficile è l'interpretazione di questi messaggi, ma laddove il maestro non è tecnicamente preparato a questo compito, è sufficiente che si limiti ad usare questi messaggi particolari come spunto per ulteriori discussioni fra gli alunni.
Una interessante applicazione in questa fase può essere fatta dei cosiddetti giochi psicologici, presentati da Spaltro e Morando come tecnica di formazione per gli adulti.
I giochi non verbali, quelli di auto ed eterovalutazione, quelli cosiddetti di " riscaldamento " sono tutti utilizzabili, con opportune modifiche. La loro importanza consiste proprio nel carattere ludico, analogico e scarsamente ansiogeno, fantastico ma nel contempo proiettivo.
I bambini giocano, cioè vivono una realtà che sembra loro fittizia, inventabile, e ciò li aiuta ad aprirsi senza troppe inibizioni; contemporaneamente essi proiettano sulla situazione ludica i vissuti, le emozioni e le motivazioni.
Tutto questo lavoro facilita un clima positivo nella classe, di apertura e disponibilità, di attenzione alle relazioni interpersonali. 

SCELTA DEGLI OBIETTIVI

Una volta che questa fase sembra matura si può passare alla fase operativa, cioè quella orientata all'apprendimento dei contenuti e dei metodi.
Va ricordato che la creazione di un clima orientato ai rapporti ed alla apertura non è uno stadio acquisibile una volta per tutte, al contrario è una meta da perseguire costantemente e periodicamente, quando l'efficienza complessiva del gruppo o la soddisfazione individuale lo richiedano.
Ciò significa che la stessa tecnica d'approccio è da utilizzare all'inizio dell'anno e poi ogni volta che sembra utile al maestro, per fluidificare e approfondire i rapporti.
Il passaggio alla fase operativa necessita di una organizzazione, ed essa deve essere al servizio degli obiettivi che la classe si pone.
La scelta degli obiettivi per alcuni è inutile. Costoro ritengono che legislazione scolastica e usi tradizionali uniti alle indicazioni dell'autorità didattica, siano sufficienti alla definizione degli obiettivi.
In realtà una attenta analisi della legislazione può offrire solo obiettivi generali e generici, mentre l'autorità didattica e gli usi offrono solo indicazioni conservative o personalistiche.
La definizione degli obiettivi deve essere realizzata tenendo conto delle singole situazioni socioculturali locali e delle specifiche peculiarità degli allievi e della classe. In altre parole, diciamo che gli obiettivi intermedi devono essere il frutto di una condecisione partecipata di tutti i soggetti del processo pedagogico.
La legge sugli organi collegiali (L. n. 477 del 30-7-73) non fa che sancire ciò che un buon maestro non può fare abitualmente. Il "che fare" in classe giorno per giorno, deve essere deciso da allievi, insegnanti, famiglie e autorità in quanto rappresentanti di istanze e situazioni diverse e necessarie.
Questo non è solo velleitario democraticismo, ma esigenza pedagogica, se l'apprendimento è conseguenza della motivazione e dell'appartenenza. L'uomo apprende ciò che vuole fare suo, che gli serve.
La decisione degli obiettivi deve essere dunque il frutto di una azione partecipata, il che non significa abdicazione del maestro in nome di un malinteso atteggiamento non-direttivo. Il maestro specie all'inizio del rapporto pedagogico è un polo di identificazione e rappresenta le figure parentali: come tale non può evitare le domande di guida e rassicurazione che gli provengono dagli alunni. Ma una cosa è partecipare, aiutare, interpretare le istanze e facilitare la decisione, e altra cosa è proiettare sulla classe le proprie motivazioni e i propri interessi culturali.

GLI ORGANISMI DECISIONALI E OPERATIVI

La decisione sugli obiettivi e la conseguente realizzazione implicano una organizzazione decisionale e una operativa. In altre parole, occorre una metodologia formale per decidere ed un'altra metodologia per operare.
L'organizzazione fatta nascere a questi scopi è un insieme di istituzioni, come la definiscono i pedagogisti istituzionali francesi. Cioè un insieme di organismi, con regole e ruoli e obiettivi, che fungono da mediazione fra allievi e maestro. Queste istituzioni hanno almeno un duplice fine: educare al gioco democratico e consentire il massimo avvicinamento fra attività educativa e motivazioni degli allievi.
Considerando il piccolo numero dei componenti di una classe, il lavoro decisionale può essere affidato all'assemblea di classe. Per decisioni particolari può essere istituito un organismo più piccolo (consiglio, commissione o comitato) elettivo o con membri a rotazione.
In queste sedi "democratiche" si dibattono i problemi generali, legati al lavoro di classe, agli obiettivi di medio termine, ai fatti di particolare gravità come la disciplina e la valutazione.
La seconda categoria di istituzioni è quella operativa, che serve per realizzazioni particolari. Piccoli gruppi esecutivi, formati in base alla attività da svolgere e alle personalità dei singoli. Il problema della divisione in sottogruppi è particolarmente sentito dai maestri che, avendo scoperto di recente le tecniche sociometriche, le scambiano per un meccanismo miracolistico. I tests sociometrici, il primo dei quali fu inventato da Moreno, hanno subito numerosi adattamenti ad opera di vari ricercatori, tuttavia hanno un principio unificante: servono a leggere i flussi di empatia e repulsione presenti in un gruppo in un certo momento.
Un test sociometrico non ha dunque un valore permanete, perchè offre solo una istantanea di lunghi e tortuosi processi interattivi. Oltre a ciò, la empatia e la repulsione sono solo due parametri che certamente non esauriscono tutti gli aspetti di una relazione che ha un obiettivo esecutivo: in altre parole diciamo che sapere se certi allievi comunicano facilmente o meno di altri, non è sufficiente per decidere come debba avvenire la formazione di sottogruppi.
E' probabile che se l'obiettivo è la realizzazione di un prodotto che richiede affiatamento e coesione, sia meglio rispettare i risultati di un test sociometrico.
Ma se l'obiettivo richiede elevata diversità fra i membri del gruppo (come nel caso di un gruppo di discussione), allora le scelte empatetiche non devono essere rispettate. Detto questo, resta il fatto che un test sociometrico può essere valido aiuto per rappresentare graficamente la situazione della classe "così com'è ora", e per fare prendere consapevolezza alla classe stessa delle relazioni che si agitano al suo interno (emarginazioni, leadership, accoppiamenti, sottogruppi, ecc.).

FASE OPERATIVA

La seconda fase è quella del lavoro vero e proprio, la fase operativa. È ovvio che essa sia strettamente conseguente agli obiettivi e dunque le metodologie varieranno in base a questi. La tecnica che il maestro deve adottare in questa fase è prevalentemente quella dell'osservazione.
Affinchè il lavoro possa procedere senza eccessivi ostacoli con un buon indice di produttività e di soddisfazione individuale, il maestro deve saper leggere la qualità e la quantità dei singoli contributi, la frequenza e la direzione delle comunicazioni, il clima del gruppo o dei gruppi e i più ricorrenti fenomeni di gruppo.
A tale scopo esistono infinite griglie di lettura sulle quali è possibile addestrarsi (la più famosa è quella di Bales, poi modificata da Borgatta). Tuttavia ciò che conta nell'interpretazione e nell'osservazione è la sensibilità e l'esperienza del maestro, acquisite attraverso vissuti personali analoghi. Questo è il motivo centrale della necessità di una formazione per gli insegnanti basato sul lavoro di gruppo, di cui parleremo più avanti.
Oltre all'osservazione in questa fase si rendono necessari spesso, almeno finché il gruppo non ha un completa autonomia operativa e decisoria, degli interventi da parte del maestro. I classici interventi del giudicare o del vicariare non sono certo funzionali alla crescita dei gruppi; quando il maestro insiste nel definire da solo ciò che è buono e ciò che non lo è, sovrappone in modo autoritario una sua scala di valori impedendo una reale consapevolezza nei bambini; così come quando esegue lui stesso qualcosa che gli allievi non sanno fare.
Come ho già detto, per molto tempo dall'inizio del rapporto col maestro, l'atteggiamento degli allievi e di dipendenza, il che è ovvio e naturale. L'assenza di interventi frustra questo naturale bisogno e crea una ansietà "anarchica"; la presenza di interventi, giudicatori o sostitutivi, rinforza negli allievi l'idea che la dipendenza sia il solo comportamento autorizzato.
Gli interventi dunque possono essere di chiarificazione, di metodo di incoraggiamento, di sostegno, cioè di una gamma vasta che vada dal neutro al positivo, finalizzata alla acquisizione da parte dei bambini della massima autonomia. Rinforzare i successi, facilitare la Meditazione fra le varie istanze, stimolare la fantasia, invitare al massimo utilizzo delle risorse e al coinvolgimento di tutti, rendersi garante del metodo partecipativo nelle decisioni; ecco alcuni dei più usuali interventi necessari nella fase operativa.
Può succedere a volte che l'allentamento del peso del maestro provochi naturalmente l'emergenza di leaders nella classe che rispondono alle istanze di dipendenza degli altri: per questo il maestro deve vigilare e impedire che alla sua autorità matura e decrescente, se ne sostituisca un'altra tirannica e irrazionale di qualche allievo più aggressivo.
Nella fase operativa è importante sottolineare che i fenomeni di gruppo sono del tutto naturali e non devono preoccupare il maestro. Molto spesso è il gruppo stesso che riesce a far evolvere i suoi fenomeni nella direzione più produttiva e soddisfacente.
Il maestro può limitarsi a tenere d'occhio i due parametri principali del lavoro di gruppo: la produttività e la soddisfazione.
Per produttività a scuola intendiamo il livello di apprendimento e di realizzazione in rapporto al tempo, e per soddisfazione intendiamo il livello di entusiasmo e di coinvolgimento emotivo dei singoli allievi.
Nel corso della vita di un gruppo capita che un singolo parametro sopravanzi l'altro limitando la crescita del gruppo. Se questo fenomeno ha breve durata non ci sono problemi, se esso perdura al punto da paralizzare il gruppo, il maestro deve intervenire. 

LA RIFLESSIONE SUL LAVORO DI GRUPPO

Gli interventi devono essere uno stimolo alla riflessione, e non richiedono tecniche particolari. Il maestro può semplicemente sottoporre agli allievi le sue sensazioni e chiederne una discussione approfondita. Molto importante è l'accorgimento di non personalizzare il disagio verso un determinato bambino, al fine di evitare di creare il " caso " speciale.
Dire che sembra che il tale non sia interessato o non impari abbastanza crea nella classe la tentazione di utilizzare l'allievo come capro espiatorio di insoddisfazioni che sono quasi sempre collettive.
Il maestro può semplicemente chiedere agli allievi se sembra loro che tutti procedono nell'apprendimento, se non ci sia dell'insoddisfazione per il lavoro che si sta facendo o per il modo con cui si fa, se tutti si sentono ugualmente interessati e coinvolti. In tal modo si apre quasi sempre una discussione in cui molti nodi vengono al pettine e possono essere introdotti i mutamenti necessari a far ripartire il lavoro nel modo migliore.
Se alle sollecitazioni verbali del maestro gli allievi rispondono negando l'esistenza di ostacoli e rallentamenti, ci sono tre possibilità.
La prima è che la sensazione del maestro sia errata o dovuta ad esigenze esterne a quelle della classe: se così fosse non resta che lasciar andare avanti il lavoro per seguirne gli ulteriori sviluppi intervenendo al momento opportuno.
La seconda possibilità è che l'analisi sia giusta ma che gli allievi rifiutino di accettare giudizi negativi sul loro lavoro: in tal caso non resta che farli scontrare con la realtà e mandarli verso una frustrazione.
Una esperienza frustrante, purché controllata e limitata, può essere una buona occasione per una presa di coscienza del cattivo funzionamento del gruppo e per l'inizio di una riparazione organizzativa.
La terza possibilità è che gli allievi realmente non vedano le loro difficoltà e la discussione chiarificatoria verbale risulti, perciò, improduttiva.
Allora il maestro può tentare l'uso della rappresentazione grafica, per esempio chiedendo agli allievi di disegnare la classe o il gruppo dal loro punto di vista e poi discutendo sui diversi lavori effettuati dai singoli.
Oppure può mettere il gruppo di fronte ad un esercizio o gioco da cui possa trasparire il cattivo funzionamento del gruppo, in maniera analogica.
A parte l'enorme gamma di questi interventi non certamente enumerabili in questa sede, ciò che conta è l'equilibrio che va mantenuto sempre in un gruppo di lavoro come quello scolastico, tra il parametro dell'efficienza e quello dell'affettività. Il primo indica la produttività e il tempo impiegato, cioè il compito da eseguire, ciò che si fa quando si sta in gruppo. Il secondo indica il livello di coinvolgimento emotivo di ciascuno, l'attenzione ai rapporti, la soddisfazione di stare assieme nel gruppo.
Come indica la figura, la vita di un gruppo oscilla, con una sinusoide più o meno ampia, fra questi due parametri: ciò che deve essere ritenuto pericoloso è la fissazione del gruppo, su uno solo di essi. Se il gruppo si cristallizza nel compiacimento affettivo rischia l'inattività e l'entropia; al contrario se il gruppo si fissa nella dimensione produttiva, la sfera dei rapporti interpersonali può risultare dimenticata.


LA VERIFICA

Una terza fase del lavoro è quella della verifica o feed-back. I singoli allievi e il gruppo necessitano di avere verifiche sul loro comportamento e sull'attività complessiva.
Certo questa verifica non deve essere una valutazione, cioè un giudizio di valore, ma uno scambio costruttivo di percezioni personali e quindi relative.
Anche il maestro deve sottoporsi a queste verifiche periodiche, proprio per avere con gli allievi un dialogo paritario.
Come il maestro ha delle impressioni sugli allievi e sul lavoro della classe, così gli allievi hanno le loro percezioni sul maestro.
Essi sono disposti ad accettare il contributo dell'insegnante nella misura in cui vedono che egli è disposto a recepire i loro punti di vista su di lui.
Dal punto di vista tecnico questa verifica può essere effettuata col semplice dialogo collettivo, ma se una discussione così delicata rischia di essere troppo ansiogena o superficiale, si può ricorrere ad uno dei numerosi questionari di valutazione del lavoro di gruppo o ad un esercizio di auto ed eterovalutazione. Ciò che occorre in questa fase al maestro è la massima disponibilità ad accettare verifiche, quindi la massima sicurezza personale.
Il bagaglio tecnico del maestro serve in conclusione ad aumentare le capacità di base che gli sono necessarie: capacità di comunicare e di interpretare, di osservare e intervenire appropriatamente, sicurezza e disponibilità. Il confine fra l'aspetto tecnico e l'aspetto personale è molto indistinto e ridurre il lavoro del maestro ad una serie di artifici, non è che una mistificazione. In realtà il problema del saper insegnare si affronta con la ricerca di nuove tecniche, ma anche con una formazione scolastica adeguata della personalità e con una organizzazione scolastica coerente.
Ecco perché l'innovazione pedagogica non può essere la semplice introduzione di nuovi "trucchi": essa coinvolge il cambiamento del comportamento del maestro ed il mutamento dell'organizzazione scolastica, pena il fallimento dell'innovazione stessa.

FORMAZIONE PERMANENTE E ORGANIZZAZIONE SCOLASTICA

Dunque il problema è quello della formazione degli insegnanti, problema drammatico se si pensa che quasi il 90% dei nostri laureati, che finiscono nella scuola, non hanno mai letto un libro di pedagogia; se si pensa al valore del nostro diploma magistrale.
L'assioma da cui parte il nostro ordinamento è che basta conoscere bene una materia per saperla insegnare bene.
Da questo discende la congerie di corsi di aggiornamento sulle singole discipline e sulle diverse metodologie che i vari enti promuovono, nella convinzione che più i maestri conoscono un certo argomento e meglio insegnano. Ho conosciuto un insegnante di applicazioni tecniche che aveva seguito dieci corsi residenziali su temi di agraria : quasi una laurea, per insegnare ai ragazzi delle medie il giardinaggio!
Con la stessa mentalità sta ora diventando di moda l'aggiornamento al lavoro di gruppo. A parte il sarcasmo della definizione "aggiornamento" per un argomento assolutamente sconosciuto, si vende la capacità al lavoro di gruppo come l'ultimo prodotto: sorgerà forse la moda di collezionare seminari anche in questo settore.

IL GRUPPO DEVE ESSERE "VISSUTO"

Quanto abbiamo detto sul significato del lavoro di gruppo e sulla complessità delle tecniche (che coinvolgono certamente aspetti della personalità dell'insegnante) dovrebbe evidenziare la necessità di una vera e propria formazione approfondita.
Con questa parola intendiamo non solo l'acquisizione di nozioni pedagogiche ma il raggiungimento di un complesso di atteggiamenti e di attitudini indispensabili per un insegnamento basato sul lavoro di gruppo.
La capacità di avere relazioni sociali, la sicurezza e la disponibilità sono qualità risultanti da un normale sviluppo psicologico. Troppo spesso questo sviluppo non è normale oppure è disturbato negli anni, fino a provocare nell'uomo profonde regressioni.
Da qui la necessità di una formazione permanente. Il maestro non può essere una buona guida di gruppo se non ha egli stesso sperimentato i problemi dell'apprendimento in gruppo, non può essere antiautoritario se tutte le sue esperienze formative sono state marchiate sa insegnanti autoritari; non può trasmettere sicurezza se non ne ha; non riesce a rendere autonomi gli allievi se non lo è lui stesso; non può insegnare il dialogo se non lo pratica; nè trasmettere i valori democratici se non è abituato a gestire spazi di partecipazione democratica.
Come possono trasmettere agli allievi la collaborazione quei maestri che passano da un consiglio di interclasse burla ad una competizione costante fra classi "buone" e classi "cattive"? Come possono giudicare, insegnanti che rifiutano di essere giudicati?
Non ci si stanca mai di ricordare che sapere cognitivamente cosa sia il lavoro di gruppo, non significa saperlo fare, tanto meno saperlo condurre. Certo occorre una preparazione cognitiva, ma che non ha utilizzazione alcuna se non è affiancata o preceduta da una serie di esperienze dirette. E l'esperienza come partecipante ad un lavoro di gruppo no è ancora sufficiente per garantire una capacità di conduzione.
In questi settori stanno ormai diffondendosi collaudate esperienze di formazione sulla scia delle prime scoperte di Lewin e della scuola di Bethel. Seminari sul lavoro di gruppo come tecnica 3e seminari di sensibilizzazione alle dinamiche di gruppo, sono esperienze obbligatorie per un insegnante d'oltreoceano , mentre nel nostro Paese stanno diffondendosi da poco, mescolati alle centinaia di seminari in cui si insegna il lavoro di gruppo attraverso conferenze.
Formare i maestri mediante conferenze significa rinforzare in loro un modello dell'insegnante-autorità, dell'apprendimento individuale e dello scarso coinvolgimento emotivo. Al contrario, occorre far sperimentare ai maestri vissuti simili a quelli che gli allievi dovranno provare facendo il lavoro di gruppo, affinché essi possano vivere e comprendere dall'interno la situazione di gruppo. Occorre far loro sperimentare l'assenza dell'autorità, perché acquisiscano autonomia e sicurezza; occorre infine far imparare ai maestri l'utilità della comunicazione verbale e non, delle verifiche interpersonali, del dialogo.
E necessario, infine, per il ruolo pedagogico ma anche per il ruolo sociale che il maestro riveste, che l'insegnante sperimenti la possibilità di vivere nell'incertezza di una situazione di gruppo, di agire per il cambiamento, e di acquisire sicurezze di qualità superiore.
Questo tipo di formazione, con l'aiuto di specialisti, è per la verità molto rara, soprattutto perché l'apparato scolastico è ancora molto lontano dalla consapevolezza di certe esigenze. Si contano iniziative episodiche, promosse da insegnanti o direttori illuminati ma non esiste ciò che sarebbe necessario; un piano di attività ed una serie di organismi interessati e preparati per questo tipo di formazione. 

CONSIDERAZIONI OPERATIVE

Tuttavia a discorso si semplifica sul piano tecnico (anche se si complica sul piano politico) se ci colleghiamo al tema dell organizzazione scolastica, in particolare dopo la legge sugli Organi Collegiali.
Ormai la scuola si è riempita di organi collegiali ai vari livelli, la partecipazione sembra essere l'ordine dei prossimi anni. La collaborazione fra insegnanti e tra questi e i genitori non è più solo un invito o un auspicio, è una legge.
Ecco dunque una buona occasione da sfruttare sul piano democratico sul piano pedagogico e sul piano della formazione degli insegnanti. Il maestro che lo desidera può trovare nella scuola lo spazio per sperimentare situazioni di gruppo, con colleghi e con i genitori sia per decidere che per studiare un certo problema. Può essere uno degli organi formali previsti dalla legge oppure un gruppo informale, l'occasione per verificarsi nella dimensione di gruppo. La famosa comunità educativa si collega alla formazione permanente, ed entrambe diventando premessa per l'innovazione.
Perché questo lavoro possa essere definito " di gruppo " occorrono alcune condizioni. Anzitutto lo spazio; le riunioni devono avvenire in un locale tranquillo, illuminato e comodo. La concentrazione ne risente se il lavoro è disturbato da rumori, se il locale e buio e le sedie scomode. Meglio sarebbe se le riunioni avvenissero sempre nello stesso posto, affinchè, anche lo spazio possa contribuire a sviluppare il senso dell'appartenenza. Un'altra condizione importante è il numero dei partecipanti, sotto i sei il lavoro rischia di essere troppo povero di contributi e sopra ai dodici c'è il pericolo di avere troppe difficoltà nell'utilizzo dei singoli contributi.
Un'altra condizione importante è il tempo. Le riunioni devono essere periodiche, ravvicinate fra loro ma non troppo (una o due alla settimana). Riunioni più rare possono far disperdere i risultati ottenuti via via, mentre sedute troppo frequenti costringono ad impegno eccessivo e impediscono la rielaborazione individuale. Anche la durata di ogni riunione è importante.
Le sedute-fiume sono una delle ragioni del fallimento del lavoro di gruppo: per alcuni risulta difficile partecipare, per altri la fatica è insopportabile. Un massimo di due ore rappresenta la durata giusta nella quale lo sforzo è moderato, l'attenzione resta desta, e gli argomenti sono affrontabili con sufficiente profondità. È un errore ritenere che i risultati di una discussione siano migliori tanto più questa continua: ciò che viene detto durante cinque o sei ore di riunione può essere esaurito nelle prime due ore, se il metodo di lavoro e corretto e i partecipanti sono addestrati. In casi particolari, se necessita un prolungamento della seduta non rinviabile, è necessario introdurre un intervallo di mezz'ora circa.
Altra condizione è l'uso di un metodo di lavoro, approvato da tutto il gruppo e modificabile solo col targo consenso dei suoi membri. Di solito fa parte del metodo l'uso di un ordine del giorno chiaro e preciso, che consente ai partecipanti di avere piena consapevolezza degli obiettivi della riunione e di riflettere in precedenza sugli argomenti in questione. Se non esiste ordine del giorno la discussione sugli obiettivi della seduta deve essere il primo compito dei partecipanti. Anche la nomina di un segretario può facilitare, almeno all'inizio, il lavoro del gruppo: suo compito è quello di stendere un sintetico verbale delle decisioni prese, avvisare gli assenti sulle future convocazioni, eventualmente dare un ordine ai vari interventi.
Di estrema importanza è l'uso di una breve riflessione al termine di ogni seduta, sul modo in cui il gruppo ha lavorato; sulla soddisfazione di ciascuno; sui risultati ottenuti. Si può dedicare a questa analisi una intera seduta di tanto in tanto, come verifica generica, per evitare di cadere in un frenetico produttivismo; oppure quando il gruppo si trova in una visibile empasse di funzionamento.
La verifica può essere fatta con una discussione libera oppure attraverso l'uso di uno dei tanti questionari sul lavoro di gruppo,seguito da un dibattito.
Per questa attività fra maestri, che ha la doppia funzione di risolvere insieme i problemi pedagogici e di formazione permanente degli insegnanti, valgono tutte le osservazioni già fatte per il lavoro di gruppo fra allievi: dalle dinamiche alla oscillazione fra produttività e soddisfazione. Le differenze riguardano l'assenza di una autorità nel gruppo (in classe c'è il maestro) e le maggiori resistenze degli adulti a fare un lavoro socializzato. È naturale dunque che l'avvio possa essere difficoltoso, ansiogeno e apparentemente improduttivo. Specie nella fase iniziale una spia di queste difficoltà può essere l'assenteismo: di fronte a questo fenomeno a nulla vale la colpevolizzazione dell'assente ed il suo utilizzo come capro espiatorio delle aggressività del gruppo. L'unico rimedio possibile è una seria autocritica del funzionamento del gruppo ed il suo eventuale cambiamento. Solo dopo un congruo numero di sedute si iniziano a cogliere i sintomi di un'evoluzione positiva, utile al lavoro ed alla formazione dei partecipanti.
Questi gruppi di insegnanti sono la riproduzione parallela dei gruppi in classe ed il maestro saprà condurre i secondi tanto più andrà avanti nella partecipazione ai primi.
Il discorso si allarga e si completa se cerchiamo di leggere ogni singola scuola come una somma di gruppi formali (consigli di classe, di interclasse e di circolo) e informali (gruppi di studio, associazioni sindacali e di genitori). Il micromodello della classe deve avere un corrispettivo nel macromodello della scuola. Non è possibile (o è assai difficile) rompere il ruolo dell'insegnante in classe se non si muta parallelamente l'organizzazione piramidale e burocratica della scuola o del circolo. La comunità classe è possibile solo se inserita nella più vasta comunità scuola. I bambini vengono aiutati nello sviluppo delle loro possibilità intellettuali ed affettive nella misura in cui tutto il corpo docente riesce a fare altrettanto. Troppo spesso gli insegnanti sprecano il loro potenziale di energie, immiserendosi nel ruolo di ripetitori o di controllori. D'altra parte è fin troppo evidente che gli allievi socializzano con più facilità in una scuola che è anch'essa socializzata.
Ecco perché l'introduzione del lavoro di gruppo in classe è insieme un problema didattico e un problema politico-sociale; li cambiamento di un sistema pedagogico ne implica uno di ordine organizzativo e strutturale, ed entrambi sono il frutto di diverse concezioni sull'uomo e sulla vita. L'opera di un maestro non si esaurisce nella classe, ma si allarga in tutta la scuola e anche al di fuori di essa: in tal modo l'insegnante diventa agente di socializzazione per gli allievi, per i colleghi e per i genitori.
La complessità del problema non deve tradursi in un alibi per non tentare l'innovazione, ma spingere ad agire con consapevolezza per una strategia di lunga durata ed una tattica di mediazioni graduali il cui punto di partenza è il cambiamento personale dell'insegnante innovatore.

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*Estratto da ATTIVITA' DI ANIMAZIONE E SOCIALIZZAZIONE NELLA SCUOLA DELL'OBBLIGO di Blasich, Contessa, Della Casa, Larocca, Marconi, Valentini- Editrice La Scuola- Brescia, 1977, pag. 29-53