Esperienza nei gruppi 

La mia esperienza nel campo dei piccoli gruppi è iniziata quando avevo sette anni e giocavo nelle strade del mio quartiere a “I ragazzi della via Pal”, la Bibbia della mia infanzia. Coesione di gruppo, lealtà, senso di appartenenza, sentimento di ostilità verso il nemico esterno, lotte per la leadership sono stati i primi vissuti forti della mia educazione. I valori familiari e sociali erano sullo sfondo come le quinte di un palcoscenico su cui sperimentavo le  più forti emozioni infantili.

Da allora non ho mai smesso di “andare per gruppi”. Al Liceo e  all’Università; nel gioco come nelle attività politiche, ho solo ricordi di piccoli gruppi. Che ho attraversato con un’intensità che ancora mi assale, dopo mezzo secolo.  L’incontro fatale è stato prima con un testo di E.Spaltro (“Gruppi e cambiamento”) che mi ha offerto una teorizzazione dei miei 20 anni precedenti; poi con l’IRIPS, che fino al 1977 è stato il mio gruppo di formazione e appartenenza, come membro accolto. Nel frattempo i piccoli gruppi avevo cominciato a generarli, cosa che non ho ancora smesso di fare. Tuttora sono membro di un piccolo gruppo (ARIPS) che l’anno prossimo celebrerà il suo 25° anno di vita, studio, ricerca e lavoro.

 

Il mio impegno nei gruppi, inteso come lavoro, inizia intorno al 1975, in concomitanza con le mie prime pubblicazioni. Da allora ho fatto l’animatore, il coordinatore e il consulente di gruppi di lavoro; il facilitatore, il trainer e il formatore di gruppi di apprendimento; il supervisore di gruppi di progettazione, valutazione o ricerca. Ho lavorato per e con centinaia di gruppi, di ogni qualità e provenienza, molti dei quali già esistenti e molti altri nati ad hoc. Fra tutti, quelli che ricordo di più, sono i “gruppi autocentrati”: le decine di varianti del  t-group o gruppo centrato sul “noi, qui, ora”. Sono anche i gruppi che i partecipanti ricordano di più. Non è raro che incontri qualche ex partecipante, magari ad un master biennale, che dopo dieci anni si ricorda solo del seminario o del momento autocentrato: 300 ore di corso e solo 20 o 10 rimaste impresse. Qualcuno attribuisce questa efficacia al fatto che i piccoli gruppi autocentrati sono “emozionanti”, il che in parte è vero. Io credo tuttavia che la loro importanza risieda in un altro fattore: l’esperienza di sovranità. Il piccolo gruppo è l’unica dimensione sociale nella quale si sperimenta una sovranità partecipata. E’ la sola aggregazione a dimensione “fraterna”.Grande gruppo, organizzazione, istituzione, comunità, folla, massa, sono dimensioni sociali di appartenenza fusionale o di emarginazione punitiva: per quanto ci si sforzi non sfuggono alle logiche della violenza inclusiva o escludente. Il piccolo gruppo può (non sempre ci riesce) essere uno spazio di cooperazione e sovranità negoziate. Uno spazio in cui ciascuno può “esserci”, sperimentando l’ambivalenza e la pendolarità di tutte le dialettiche possibili. Centro e periferia, potere e impotenza, fusione e distinzione, solidarietà e competizione sono opzioni compresenti e consustanziali ai piccoli gruppi, come in nessuna altra aggregazione umana. Il piccolo gruppo può essere l’Aleph di Borges. Un frattale del pianeta che non a caso P. Slater ha chiamato microcosmo. E’ questa esperienza dell’infinito nel finito che crea emozioni e si stampa come indelebile ricordo. Se funziona.

Molti sono i gruppi che ricordo perché non hanno funzionato e, sopra tutti, ricordo quelli nei quali io non ho funzionato come dovevo e potevo. Gli errori di impazienza, i controtrasfert, le mancate attenzioni, i cali di energìa e dunque di investimento, e di fiducia, che ho commesso, sono almeno pari alle buone prestazioni che ho fornito. Lavorare coi gruppi è una sorta di recitazione da Actor’s Studio. Una recita senza finzioni, vissuta dal di dentro, che ti fa diventare in tempi brevissimi membro di un corpo, da cui devi subito separarti. Lavorare coi gruppi è una continua esperienza di nascita, procreazione e morte. I piccoli gruppi non sono solo un frattale dello spazio sociale, ma anche del tempo esistenziale. Sappiamo bene che si tratta “solo” di un lavoro, ma non è un lavoro staccabile dalla vita. La mia vita ha alimentato o ostacolato il mio lavoro coi gruppi, e questo ha influenzato molto la mia vita.  

 Tutto ciò rimanda alla caratteristiche di chi lavora coi gruppi ed alla sua formazione. Chi lavora coi gruppi deve avere un “gruppo interno” molto dinamico, molto consapevole, molto articolato, anche se unitario. Questa caratteristica è in parte derivante dalla personalità, cioè dall’educazione infantile e adolescenziale, ma in parte è espandibile con un’adeguata formazione. E’ tragicomico constatare che in una società nella quale per fare il salumiere o il taxista occorre un “patentino”, tutti siano abilitati a lavorare coi gruppi. D’altronde, se il patentino deve essere assegnato secondo meccanismi burocratici (tutti abbiamo sotto gli occhi i guasti dell’Albo degli psicologi), meglio l’attuale situazione “silvestre”. Per fortuna, nessun operatore di gruppo è tanto potente da creare seri danni ai gruppi che attraversa. Semmai paghiamo la tassa dell’inutilità. Un operatore di gruppo senza formazione adeguata è inefficace. La situazione attuale delle pratiche sociali è una prova di questa asserzione. Le pratiche di gruppo (lavoro, formazione, animazione, sensibilizzazione, socializzazione e terapia) hanno avuto dagli Anni Settanta una diffusione esponenziale. Non esiste ormai alcuna pratica  sociale (dove cioè siano previsti “soci” e  relazioni) che non sia definita come “di gruppo”. Dovremmo essere la società più gruppalizzata di Occidente, e l’Occidente dovrebbe vivere la sua stagione storica più gruppalizzata. In realtà è difficile pensare ad un Paese e ad un’epoca storica più individualizzati e massificati degli attuali. Ogni giorno le gazzette sono piene di episodi che testimoniano di una sorta di “analfabetismo della pluralità”. L’appartenenza ai gruppi si è prima trasformata in pluri-appartenenza, per diventare oggi disappartenenza totale. Le poche appartenenze che si registrano riguardano entità futili e fusionali come le squadre di calcio, i gruppi di fans di qualche rockstar, i sostenitori acritici di simulacri politici. Oppure appartenenze basate sull’ espropriazione della sovranità, come avviene nelle sette. Possiamo dire che è in crisi la gruppalità perché è in crisi l’identità, convinti come siamo, che si tratta di due facce della stessa medaglia.   

La competenza e la formazione dicevamo. La sola cosa che oggi ritengo necessaria è un vero training personale, lungo, serio e selettivo. Tutti possono fare ciò che vogliono coi gruppi, ma se vogliono fare qualcosa di utile devono essere formati, come persone e come professionisti. Studiare certo i sacri testi, ma ancora di più “vivere in gruppi”, e sperimentare gruppi di formazione etero, ma soprattutto autocentrati.

Per i piccoli gruppi credo stia iniziando una nuova primavera, come capita sempre nei periodi terminali di una crisi storica. Tuttavia per almeno un lustro credo che occorra tornare alla vecchie strategie dell’interstizialità. La cultura di gruppo è incompatibile con la cultura imperiale. A metà degli Anni Settanta i gruppisti hanno abbandonato le teoria degli interstizi, per entrare a vale spiegate nelle organizzazioni pubbliche e private, sulla scia di una modernizzazione promessa e subito tradita. Questo è servito a commercializzare la cultura di gruppo ma insieme a snaturarla. La maggioranza dei gruppi oggi attivi sono allucinazioni, simulacri, quando non vere e proprie finzioni. Se vogliamo un futuro per la cultura di gruppo, dobbiamo ritirarla in un esilio riparato e benefico, élitario e solitario. Dobbiamo smettere di svenderla alle organizzazioni che la usano per mascherare il loro deserto etico e culturale. E dobbiamo smettere di divulgarla a giovani leve che la usano come illusione di potenza. Dobbiamo tornare a trattare la gruppalità per come è: un sogno difficile,  una meta faticosa, un progetto di crescita esistenziale e sociale. In verità i “gruppisti” hanno commesso l’errore di tutti i marginali: una volta invitati al centro, abbiamo smesso di considerarci periferia. La cultura di gruppo è nata come -e non può che essere- periferica, specialmente in un’era di dominio imperiale. Una società che marcia verso l’unificazione planetaria sotto le aquile imperiali, non può accettare una cultura della sovranità distribuita se non come finzione, parentesi, evasione. Tre giorni di t-group in cambio di un anno di sottomissione e azzeramento del senso. La cultura di gruppo deve accettare la sua marginalità, la sua natura elitaria, la sua  trasgressività.  Dobbiamo tornare a fare cultura di gruppo all’interno di piccoli gruppi, oasi, monasteri, “zone temporaneamente autonome”, che se non potranno cambiare il mondo né parteciparvi, offriranno ai pochi interessati vere esperienze di cambiamento e crescita.   

L’idea del monastero mi rimanda a quella che un lavoro di qualità coi gruppi, si può fare solo in gruppo. Mi sorprendo molto quando registro le centinaia di organizzazioni, studi, associazioni presenti sul “mercato” dei gruppi - nella formazione soprattutto -, che non presentano alcun nome dei  propri operatori oppure offrono solo quello del “titolare”. L’idea sottostante è che a lavorare coi gruppi saranno inviati trovatelli, orfani, stagisti, parenti raccomandati intercambiabili di volta in volta, e reperiti ad hoc –con uno “squillo”- sul mercato del precariato di lusso. Scarsi i professionisti e ancora più scarsi i gruppi di colleghi. Abbiamo migliaia di operatori che ogni mattina entrano in un gruppo, retribuiti per un qualche obiettivo, senza formazione e senza aver lavorato un solo giorno in gruppo. Formatori che torturano i loro partecipanti con l’apprendimento gruppale, senza avere fatto un’ora di staff. Consulenti che predicano il “teamwork”, vivendo in un ufficio con la sola segretaria. Tutto ciò non è solo frutto di scarsa serietà degli operatori: è esattamente quello che vuole la maggioranza dei clienti e dei committenti. Sono tantissimi i dirigenti che preferiscono un formatore di gruppo inesperto e solitario, perché non vogliono assolutamente che la loro organizzazione si gruppalizzi. Ed è ovvio che la UE, i Ministeri e le Regioni –provincia importante dell’Impero- non abbiano interesse a favorire concrete esperienze di gruppo. Così la cultura di gruppo è oggi divulgata da orfani e lupi solitari.

Un intervento di gruppo di qualità non può che essere condotto da un gruppo di qualità. E’ ben nota la specularità fra gruppo che interviene e gruppo utente. Al punto che è possibile descrivere i comportamenti di un gruppo, osservando quelli dello staff o dell’équipe che se ne occupa. Un operatore di gruppo capisce quello che succede nel suo gruppo di partecipanti se ha una formazione adeguata, ma anche se opera in un gruppo capace di riflettere su di sé. Un operatore di gruppo non può cercare gratificazioni dai partecipanti, ma ha il diritto di ottenerne dal suo gruppo di colleghi. Un operatore di gruppo difficilmente riceve ed accetta critiche dai suoi partecipanti: solo il gruppo dei colleghi può fornire una supervisione critica. Il piccolo gruppo ideale è insieme madre nutritiva, padre normativo e fratello solidale. Per diventare questo, paga un operatore, che a sua volta ha bisogno di nutrizione, normatività e complicità da un gruppo di colleghi.

Da quasi trent’anni lavoro coi gruppi e non avrei potuto farlo senza l’IRIPS prima e l’ARIPS dopo.