Il laboratorio di dinamiche di gruppo e di comunità di Guido Contessa*

SOMMARIO

1. Tecniche, valori, metodi: la dimensione "plurale"
2. Il " laboratorio " (Lab)
3. I problemi dell’autocentratura e della simulazione
3.1 Le difese si basano su processi inconsci di mistificazione
3.2 Il Lab è un'esperienza di dualità ricomposte
3.3 Il Lab stimola il cambiamento
3.4 La simulazione deve trovare un equilibrio fra iperrealismo ed irrealismo
4. I " fuochi " del Lab
4.1 Il potere
4.1.1 Il modello francese
4.1.2 Il modello sperimentato a Massa
4.2 I rapporti fra i gruppi
4.3 Il cambiamento sociale
4.3.1 Tipologia dei cambiamenti sociali
4.3.2 Il cambiamento sperimentato nel Lab di Massa

Nessun animatore può lavorare da solo: ciascuno lavora sempre in un gruppo: questo, a sua volta, è inserito in un’organizzazione ed in una comunità.
Gli operatori socioculturali di Massa sono organizzati per gruppi di quartiere ed appartengono all’organizzazione dell’Amministrazione comunale; inoltre essi operano nella scuola, un’altra organizzazione, e per un’utenza di quartiere, cioè di comunità. Le entità gruppo, organizzazione e comunità sono dunque cruciali per ogni operatore sociale, il quale deve conoscerne le dinamiche e imparare a muoversi in esse col massimo di sicurezza.

1. Tecniche, valori, metodi: la dimensione " plurale"

Molto spesso gli operatori considerano importanti soprattutto le tecniche inerenti il loro lavoro. Attraverso le tecniche essi sembrano acquistare sicurezza, per quel tanto di potere che consentono e per il senso di onnipotenza che inducono. Ma il potere della tecnica si basa sulla specializzazione e sulla razionalità, cioè sulla separazione e sulla oggettività. In realtà nessuna tecnica, e la crisi del mondo contemporaneo lo dimostra, ha senso per l’uomo, se è svincolata da un insieme di valori, da un metodo e da un contesto. Se la ricerca dei valori è compito del singolo operatore, è pur vero che il Corso ne ha proposti alcuni e molto precisi: la massima realizzazione delle persone concrete, la dialettica fra individuale e sociale, il decentramento e l’autonomia, la creatività ed il dissenso, il recupero di potenziali repressi o rimossi, come la socialità e l’espressività.
Anche un metodo è stato proposto: la partecipazione, la collegialità, il gruppo.
Nessuna azione di cambiamento è infatti possibile se non passa attraverso la socialità, il plurale, il gruppo. Ma questi non sono solo obiettivi e contenuti: essi sono anche strumenti metodologici. Ogni cambiamento è cambiamento di me e degli altri, cioè è collettivo; e non può essere promosso se non da me e dagli altri, cioè da un collettivo. Il gruppo è dunque un’entità centrale, non solo un mezzo per rendere più efficace il lavoro; è un metodo ma insieme un contenuto; è uno strumento ma anche un valore.
Ogni azione sociale si svolge all’interno di un contesto, che in questo caso è duplice: l’organizzazione e la comunità (urbana e di quartiere).
Per organizzazione o istituzione intendiamo qui un insieme di strumenti, norme esplicite, ruoli, finalizzato al raggiungimento di obiettivi specifici. La scuola o l’Amministrazione comunale sono organizzazioni o istituzioni. Per comunità intendiamo invece l’insieme dei gruppi o degli individui che vivono nello stesso spazio e sentono di appartenervi.
L’organizzazione o l’istituzione hanno contorni specifici e maggiore rigidità; la comunità è un ente generale, comprendente il lavoro e la vita sociale, è indefinibile nei suoi contorni e si caratterizza nel vissuto e negli atteggiamenti dei suoi membri.
L’organizzazione e l’istituzione sono enti essenzialmente formali; la comunità è per lo più informale. Le prime due si basano sul principio di finalità e di efficienza; la comunità si basa sul principio di identificazione e di soddisfazione.
Naturalmente questi modelli teorici si presentano nella realtà mescolati: sono indispensabili elementi caratteristici della comunità anche nelle organizzazioni e nelle istituzioni, così come non esiste una comunità priva di organizzazione.
Ciò che interessa qui è rilevare come per l’operatore socioculturale, il contesto organizzativo e comunitario siano una realtà importante, con cui occorre avere familiarità.
Il fallimento di molte iniziative sociali non è dovuto a mancanza di tecniche o a povertà teoriche, ma alla trascuratezza delle dinamiche di gruppo, di organizzazione e di comunità.
Purtroppo le dinamiche di gruppo e di comunità sono così numerose da non poter certo essere trasmesse in un seminario di qualche giorno. All’interno del Corso dovevamo operare delle scelte quantitative. Esisteva poi un problema di metodo didattico. Che senso ha insegnare le dinamiche di gruppo e di comunità attraverso conferenze o dibattiti? Un apprendimento simile sarebbe risultato astratto, ideologizzato, avrebbe al massimo inciso sul sistema cognitivo degli operatori. Ciò che noi volevamo era invece offrire un’esperienza da vivere in prima persona, un apprendimento che toccasse anche il sistema emotivo dei partecipanti, che si basasse su comportamenti e fatti concreti.
Si è deciso quindi per un " laboratorio " residenziale di cinque giorni, basato sulle tecniche autocentrate e sulla simulazione.

2. Il "laboratorio" (Lab)

Il nome di " laboratorio " deriva dal fatto che i partecipanti non assistono, ma lavorano attivamente, sono attori dell’esperienza. Il carattere della residenzialità è dovuto all’esigenza di una immersione intensiva: ciò che si ottiene in cinque giorni residenziali, è molto più di quanto si ottiene in venti giornate non residenziali. La residenzialità offre maggiore concentrazione e completo distacco dalla vita quotidiana; offre ampi spazi per scambi informali fra i partecipanti, in aggiunta a quelli che si verificano nelle ore formali di incontro; infine elimina per i partecipanti la possibilità di un recupero delle difese, che risorgerebbero col ritorno a casa a fine giornata. I punti fermi di un Lab sono essenzialmente solo due.
Il primo è la centratura dell’attenzione dei partecipanti su se stessi, sul gruppo, sulla situazione presente. I partecipanti vengono stimolati ad uno sforzo di vivere, discutere, riflettere in tempo reale. Ciò che in un Lab si tenta di ottenere è il superamento delle dicotomie tradizionali di passato-futuro, io-voi, vivo-penso ecc. Gli eventi si susseguono nella esperienza dei partecipanti, come in un presente continuo; soggetto ed oggetto del lavoro sono sempre: io e noi, qui ed ora.
E' questa immersione centrata sul sé, sul noi e sul presente che consente un apprendimento vivo, radicato ne’esperienza personale e diretta, basato sia sull’intelligenza che sulla sfera emozionale e comportamentale. Il Lab è un’occasione per capire ma anche per vivere; i partecipanti possono leggere le varie dinamiche, ma sono anche stimolati ad agire in esse, sperimentando i comportamenti più diversi.
Il secondo punto fermo è quello della simulazione. Il Lab è come una grande drammatizzazione, o un grande sociodramma, in cui sono previsti alcuni eventi, occasioni, spazi, ed i ruoli principali (trainer, osservatore, partecipante, staff): tutto il resto è nelle mani dei partecipanti; ciò che accade nel Lab è ciò che essi fanno accadere. I trainers e gli osservazioni, cioè lo staff, hanno un ruolo di facilitazione nel lavoro interpretativo e di tutela della struttura minima (spazi, tempi, eventi principali).
Nell’arco dei giorni del Lab, ciò che si sa subito è: come è strutturato il tempo (ore di lavoro ed intervalli), quali sono le stanze per i lavori dei gruppi, chi sono i trainers e gli osservatori dei vari gruppi, quale è il " focus " centrale del lab. Tutto ciò che accade all’interno di questa " gabbia " metodologica non è noto prima, né ai partecipanti né allo staff: sarà frutto del lavoro e delle interazioni reciproche.
Nel caso di Massa sono stati previsti sette gruppi di circa 12-13 persone, ciascuno dei quali con un trainer ed un osservatore. Il trainer aveva il ruolo di conduttore-facilitatore, l’osservatore doveva osservare senza diritto di intervento nel gruppo, per poi collaborare negli intervalli col trainer o con lo staff. Lo staff era l’insieme dei trainers e degli osservatori: gruppo responsabile di tutto il lab.

3. I problemi dell’autocentratura e della simulazione

Le tecniche auto centrate, usate per la prima volta durante un seminario condotto da K. Lewin nel 1946, sono, secondo C. Rogers, la più importante invenzione delle scienze sociali del nostro secolo. L’auto riflessione individuale e collettiva, basata sul " qui ed ora ", consente da una parte l’introspezione sulle dinamiche personali e di gruppo, dall’altra lo scambio, cioè la verifica intersoggettiva della realtà e l’interazione. Essendo il " qui ed ora " un patrimonio di tutti i presenti, ciò che accade può essere verificato ed " agito " da tutti i presenti.
Naturalmente ci sono delle difficoltà.

3.1 La principale è che la situazione auto centrata, proprio per le sue caratteristiche, consente di smascherare le difese.
Ogni individuo sceglie una serie di comportamenti e di atteggiamenti che ritiene funzionali all’adattamento con la realtà che (apparentemente) gli costa meno. Per esempio, una persona che non parla in pubblico per timidezza, è una persona che usa la timidezza ed il silenzio come difesa dal suo sentirsi in colpa per tutto e con tutti. Gli sembra meno costoso stare zitto e sopportare gli altri, piuttosto che affrontare i sentimenti di colpa che gli sorgerebbero se parlasse. Di questi esempi possiamo farne a decine. Esistono difese individuali e difese di gruppo. Le prime proteggono il singolo, le seconde il gruppo. Difese da cosa? Dalla rottura di equilibri cui siamo adattati, dalla presa di coscienza, dallo sviluppo. Le difese sono funzionali, entro certi limiti, sia alla sopravvivenza che alla vita. Diffidenze, precauzioni, prudenze, riservatezze, pudori, discrezioni, sono strumenti necessari per vivere. Il problema sta nella loro entità.
Fino a certi livelli le difese sono fisiologiche, oltre certi livelli sono patologiche. Patologiche nel senso che ciò che ci impediscono, è assai di più di ciò che ci consentono, nel senso che l’equilibrio e l’adattamento che difendono è tutto a nostro sfavore. Chi è sospettoso (si difende) nei confronti di funghi trovati in un bosco, non fa che proteggere la sua vita; ma quando questa diffidenza fosse rivolta a tutti i cibi non coltivati con le proprie mani, essa impedirebbe la alimentazione quotidiana.
Il crinale fra difese fisiologiche e patologiche è assolutamente indefinibile a priori; ed è diverso da soggetto a soggetto e da gruppo a gruppo, da momento a momento. Non resta che l’esperienza: provare e riprovare fin quando ciascuno trova il suo confine ottimale in un certo momento. E il confine ottimale è quello che consente all’uomo i massimi benefici ai minimi costi.
Le difese si basano su processi di razionalizzazione di materiali irrazionali. La paura irrazionale di un’autorità, per esempio, viene coperta da ragionamenti tesi a dimostrare che ogni autorità è cattiva, sulla base di esempi ed argomentazioni vere ma amplificate. Oppure si basano su denegazioni. La paura degli altri viene negata: a prova della sua inesistenza, vengono fatte dichiarazioni o azioni diversive (per esempio: " io sto bene con tutti "; oppure: " non parlo perché non ho niente da dire ", ecc.). Infine le difese si basano su processi proiettivi per i quali il soggetto che si difende attribuisce ad altri i propri atteggiamenti difensivi o le cause di essi.
Insomma le difese si basano su processi inconsci di mistificazione. Questa mistificazione è favorita se al soggetto si consente di parlare del passato o del futuro, di cose lontane a chi ascolta, o di cose che non si possono agire in concreto.
Se invece il soggetto è messo in una situazione di " qui ed ora ", la mistificazione è resa difficile dal rapporto e dalla verifica con gli altri presenti. Così le razionalizzazioni, le denegazioni, le proiezioni vengono via via demolite dal confronto e dalla verifica interpersonale e di gruppo. Per questo un Lab è una sequenza di difese abbattute e riedificate.

3.2 La seconda difficoltà consiste nello sforzo di superamento delle abituali separazioni di tempo, di spazio, e di attività.
Noi siamo abituati a separare i nostri atti in sequenze temporali, per cui sentiamo un prima ed un dopo. Il presente è un tempo che sembra non appartenerci mai, se non per differenza aritmetica. Riusciamo a ricordare o a immaginare, ma solo con difficoltà riusciamo a vivere nel presente consapevolmente. Mentre riuscire a vivere nel presente significa riunificare il tempo scandito e separato.
Noi distinguiamo sempre l’Io dall’altro, l’Io dal voi o dal noi. Lo spazio individuale e quello collettivo sono separati e sembrano in contraddizione. Riusciamo a vivere le due dimensioni (individuale e plurale) sono separandole, dislocandole nel tempo o nello spazio: qui l’Io e là il noi, ora voi poi io. Nel Lab si viene proiettati in un’esperienza in cui individuale e plurale coincidono, in un tempo presente. La doppia dimensione di tempo e di spazio viene vissuta come in una totalità simultanea.
Infine siamo abituati a suddividere le nostre azioni, in sequenze del tipo: esperienza-sentimento-riflessione-comunicazione-azione ecc. Nel Lab queste attività sono rese possibili simultaneamente; ci si sforza affinché la complessità della persona e del gruppo viva, senta, rifletta, discuta, agisca in tempo quasi reale.
Insomma il Lab è un’esperienza di dualità ricomposte, ed è una storia di continue separazioni e ricomposizioni, assai difficili e costose per i partecipanti.

3.3 Infine c’è la difficoltà del cambiamento. Il Lab non è solo un’occasione di apprendimento. Esso consente, anzi, stimola a sperimentare dei cambiamenti. La rottura degli equilibri non è solo afferrata come possibile; la esperienza delle dualità non è solo esplorata.
Il cambiamento è stimolato nella concretezza degli atteggiamenti e dei comportamenti. I soggetti sono invitati a comprendere ma anche ad agire, superando le difese superflue. Proprio questa occasione di cambiamento non solo dichiarato né dilazionabile, è la grande forza e la grande difficoltà di un lab.

3.4 Il Lab presenta numerosi problemi di metodo anche circa il suo carattere di simulazione. L’esperienza del Lab non può essere una riproduzione della realtà in tutti i sensi. La realtà è quotidianamente sotto gli occhi di tutto, ma non per questo è fonte di apprendimenti. D’altra parte la realtà è sempre molto sfumata, complessa, articolata. Essa non si sottopone a schemi o analisi semplici. Ciò che accade in un Lab deve invece essere interpretabile, con sfumature sì, ma non infinite.
Insomma il Lab deve essere simile a una situazione reale, ma non uguale; deve essere una porzione della realtà, schematizzata e drammatizzata. La situazione del Lab è una analogia, che ha qualche similitudine e molte differenze rispetto alla realtà.
Il primo pericolo che un Lab deve evitare è quello dell’iperrealismo. Fare una esperienza identica alla fabbrica o alla scuola non sarebbe di alcun aiuto. Il secondo pericolo da evitare è quello del grottesco. Presentare nel Lab eventi o ruoli tanto lontani dalla realtà da essere fantastici, significa impedire un uso del Lab come esperienza trasferibile. La enfatizzazione di certi eventi o comportamenti serve per renderli percepibili, definibili, studiabili; ma la loro esagerazione li rende irreali. La simulazione dunque deve trovare un equilibrio fra iperrealismo ed irrealismo. Soltanto questo equilibrio consente ai partecipanti un’utile immersione, emotiva ed intellettiva insieme. Un Lab iperrealista arriverebbe solo alla sfera emotiva, mentre un Lab grottesco, irreale, allegorico, toccherebbe solo la sfera intellettiva. La simulazione di un Lab deve consentire un’esperienza di " come se ": simile, ma non uguale alle esperienze reali. La imprecisa definizione dell’equilibrio fra realismo e grottesco, lascia uno spazio soggettivo ai partecipanti di interpretazione e di azione, che sono sia realistiche sia innovative. Il grado di realismo, cioè di ripetizione, o di innovazione che ciascuno vuole mettere nell’esperienza, è scelto con libertà, sulla base della motivazione ad apprendere ed a investire energie nel cambiamento.
In altre parole, diciamo che un Lab deve essere vicino ma non uguale alla realtà, non solo perché i partecipanti abbiano la possibilità di capire meglio l’esperienza che vivono, ma anche per permettere loro di cimentarsi in nuovi comportamenti possibili, trasferibili poi, una volta acquisiti, in situazioni analoghe.

4. I " fuochi " del Lab: il potere, i rapporti fra gruppi, il cambiamento sociale

Abbiamo detto che erano necessarie delle scelte sulla focalizzazione da dare al Lab; le dinamiche di gruppo e di comunità sono numerose e complesse, tanto da non essere esplorabili nemmeno in sei mesi.
Abbiamo scelto tre focalizzazioni centrali, senza scartare pregiudizialmente le altre possibili. La scelta voleva solo dire che il Lab prevedeva alcuni eventi ed alcune simulazioni finalizzate, e che gli interventi dei trainers dovevano sottolineare con più intensità le focalizzazioni prescelte.
Questo non avrebbe impedito lo svilupparsi di altre dinamiche, in base alle situazioni emergenti nei gruppi.
Le dinamiche del potere sono state scelte per la loro centralità in ogni situazione sociale, organizzazione o comunità. Capire come si muove il potere e come è più utile rapportarsi ad esso, è essenziale per chiunque, ma ancor più per operatori sociali che hanno a che fare: con l’Amministrazione comunale (datrice di lavoro), con autorità scolastiche e con poteri informali che sempre serpeggiano sia nei rapporti interpersonali che in quelli fra gruppi. Nelle dinamiche del potere abbiamo compreso anche quelle dell’influenza e del dominio, della repressione e dell’emarginazione, della delega e della rappresentanza.
I rapporti fra gruppi ci sono sembrati importanti in considerazione del tatto che gli operatori hanno a che fare quotidianamente con gruppi (di insegnanti, di bambini, di genitori, di quartiere ecc.) e sono organizzati anch’essi per gruppi. La capacità di gestire le dinamiche intergruppo non solo è importante per un corretto rapporto con l’utenza e col contesto, ma anche per un efficace funzionamento collettivo degli operatori. Collaborazione, competizione, contrattazione, conflitto, mediazione, comunicazione, alleanza: queste dinamiche costituivano il secondo " focus " del lab.
Il cambiamento sociale era in fondo il filo rosso di tutto il Corso, per cui ci sembrava importante offrire un’esperienza sulle dinamiche del cambiamento all’interno di un sistema complesso, organizzazione o comunità che fosse. Dinamiche procedurali, conflitti di ruolo, dinamiche assembleari e di consigli di delegati, conflitti fra gruppi e devianze istituzionali, strategie del consenso, stili di cambiamento ecc. erano le focalizzazioni possibili, le scelte prioritarie.

4.1 Il potere
All’interno di un Lab si cerca di presentare il potere e le sue dinamiche, come un ruolo, una funzione impersonale ed istituzionale.
Questa è la simulazione principale. Nella realtà infatti il potere non è solo questo, ma anche seduzione, manipolazione, dominio arbitrario, ricatto e repressione. Nella realtà il potere ha di solito il fine di autoalimentarsi o difendersi; nel Lab il potere è rappresentato in modo da farsi smascherare dai partecipanti. Nella realtà il potere si nasconde con trucchi come il paternalismo, il formalismo giuridico, l’assenteismo, la demagogia o il trasformismo: è questo occultamento che ne rende possibile la perpetuazione nelle stesse mani e negli stessi modi; ed è questo occultamento che impedisce la presa di coscienza dei dominati, la loro emergenza come polo conflittuale, la loro autonomia.
Nel Lab, il potere è rappresentato in modo esplicito, preciso e riconoscibile, perché il suo obiettivo è quello di essere disoccultato, compreso e combattuto.
Il più evidente elemento di potere del Lab è la cosiddetta " gabbia " istituzionale: i tempi, i luoghi ed i ruoli.
Lo staff che conduce il Lab comunica subito le sequenze temporali della esperienza (ore di lavoro, intervalli); i luoghi di incontro ed i raggruppamenti dei partecipanti (in quale gruppo ed in quale aula ciascuno debba andare); i ruoli formali esistenti (trainer, osservatore, staff, partecipanti). Questo potere istituente è gestito dallo staff e subito comunicato a tutti:
la comunicazione costituisce una sorta di patto sociale del lab. L’istituzione del Lab, originata dallo staff, riguarda ed impegna tutti come una "gabbia " impersonale, almeno fino a decisione contraria.
E' evidente qui la simulazione delle realtà istituzionali, cui siamo abituati nella realtà: ciascuno di noi entra a far parte di una comunità o di una organizzazione, di cui sono sempre delineate norme, più o meno numerose e vincolanti. L’accesso ad una organizzazione contiene in sé una tacita accettazione di queste norme: spesso questa accettazione non è neppure tacita ma prevede firme di contratti, giuramenti o rituali di ammissione.

4.1.1 Il modello francese

Alcune esperienze di Laboratorio, per lo più di origine francese (G. Lapassade, M. Pàges ecc.) hanno proposto di rifiutare la preesistenza di decisioni, norme o ruoli istituiti. Costoro hanno spesso sperimentato " laboratori " in cui partecipanti ed animatori partissero da zero, in un processo di " istituente collettiva ". Questi Labs iniziano impegnandosi nelle decisioni su tutto ciò che riguarda l’esperienza: dal costo agli orari, dalla organizzazione della cucina alla formazione dei gruppi.
N
oi abbiamo rifiutato questa via per motivi sia pedagogici che politici. Sul piano politico l’impostazione francese sembra più libertaria, mentre in realtà si basa su un’ipotesi di democrazia consociativa, rifiuta il conflitto come elemento fisiologico e, dunque, in ultima analisi, facilita la perpetuazione delle diseguaglianze. Affermare che lo staff è " alla pari "dei partecipanti, significa denegare l’oggettivo potere della sua conoscenza, ed il potere che i partecipanti vivono soggettivamente proiettato nello staff. Credo sia una grande e pericolosa mistificazione affermare che staff e partecipanti (docenti e discenti) sono " alla pari ". Essi sono, in partenza, collegati in base ad una grossa diseguaglianza: staff e docenti hanno un potere molto maggiore. Semmai il problema è quello di " diventare alla pari ", cioè di riequilibrare la disuguaglianza; ma questo non si ottiene partendo da denegazioni o slogans ugualitari. Si ottiene facendo acquisire ai partecipanti le armi cognitive ed emotive, per agire un conflitto che porterà (forse) all’eguaglianza.
Sul piano pedagogico il modello francese è stato rifiutato per il suo carattere di simulazione fantastica ed irreale. Nessuna organizzazione reale è lasciata ai membri perché la istituiscano: semmai essi possono cambiare un organizzazione già istituita, rendendola più vicina ai loro bisogni o demolendola. Nel Lab, gli apprendimenti trasferibili riguardano perciò il cambiamento organizzativo e non il processo istituente.

4.1.2 Il modello sperimentato a Massa

A Massa, dunque, i partecipanti hanno sperimentato un rapporto con una " gabbia " istituzionale minima, data per accettata e consensuale fino a prova contraria. In quanto patto sociale tacito, le regole si consideravano immodificabili da parte dello staff, anch’esso rigidamente sottoposto alla istituzione comunicata in partenza.
Da questa impostazione sono discese alcune conseguenze interessanti.

1) La prima era che i comportamenti devianti non potevano essere considerati legittimi, pena la copertura mistificatoria del potere. Quando nella prima giornata, alcuni partecipanti hanno deciso di convocare un’assemblea per discutere di problemi a carattere sindacale (rapporti fra partecipanti ed Amministrazione comunale), lo staff è rimasto nelle aule previste per il Lab ed ha seguito gli orari prefissati. Quando, nella seconda giornata, alcuni partecipanti hanno deciso di costituire un gruppo non previsto dal Lab, lo staff ha negato qualsiasi riconoscimento a questo gruppo, che ha dovuto gestire fino al quarto giorno un ruolo extra istituzionale (cioè fuori dal Lab). Queste rigidità hanno creato molta tensione fra i partecipanti e, spesso, erano interpretate come atti di sadismo o come insensibilità o come atteggiamento autoritario. In realtà hanno consentito, alla fine del Lab, importanti prese di coscienza. La principale delle quali ha riguardato il rapporto fra conflittualità legale e di massa, e conflittualità illegale e d’élite. Il potere ha gestito il suo ruolo fino in fondo, ma questo non impediva un cambiamento istituzionale: naturalmente purché i partecipanti riuscissero a sviluppare una lotta tatticamente corretta.

2) Questa lotta tatticamente corretta apriva il capitolo dei rapporti di potere orizzontale, cioè fra i gruppi ed all’interno dei gruppi.
In una situazione come quella del Lab, e come quella di molte organizzazioni sociali, non esiste un potere oggettivo di repressione: nessuno può essere licenziato, trasferito, incarcerato o picchiato. Il potere dello staff risiede solo in due elementi: la conoscenza e le proiezioni dei partecipanti. La conoscenza viene gradualmente ceduta nel corso dell’esperienza, attraverso i contributi dei trainers nei gruppi di lavoro. Le proiezioni dei partecipanti, cioè la loro dipendenza psicologica dallo staff, sono proporzionali al grado di frammentazione e diseguaglianza esistenti a livello orizzontale. Tanto più i partecipanti sono solidali e coesi, tanto più la loro dipendenza dall’autorità diminuisce, aumenta l’uguaglianza col potere e la forza contrattuale.
Ma l’aumento di solidarietà e coesione fra i partecipanti è funzione della assenza di diseguaglianze fra essi. In realtà i partecipanti hanno sperimentato nel Lab che certe lotte contro il potere non corrispondono a processi di uguaglianza, ma sono solo competizioni fra élites. La lotta contro lo staff fa dimenticare, o addirittura è usata strumentalmente, per evitare la lotta contro le diseguaglianze fra i partecipanti. I meccanismi dei leaderini, delle élites, del rapporto fra masse ed avanguardie, sono stati vissuti a Massa in prima persona, smascherati e, in alcuni casi, superati. Attraverso un’esperienza tesa ed a tratti drammatica, i partecipanti hanno compreso come nessuna lotta contro il potere dei nemici ha speranze di successo se non è accompagnata ad una lotta contro il potere degli amici.

3) Una analisi approfondita delle diseguaglianze orizzontali è stata facilitata da un evento previsto nella terza giornata: la elezione di delegati dei gruppi, che avrebbero dovuto partecipare, a livello paritetico con lo staff, ad un Comitato di " verifica e progettazione " del Lab. Per una giornata i gruppi hanno affrontato i processi di selezione e decisione sui delegati, analizzando sotto ogni aspetto come avviene la scelta, su quale membro cade, quali gradienti di potere delegare, quali significati e risvolti psicologici e politici ha la scelta di un delegato. Quando poi i delegati si sono presentati al Comitato, i partecipanti (ammessi come osservatori), hanno potuto vedere da vicino come una delega viene interpretata, quali dinamiche si sviluppano in un gruppo di delegati, come si può muovere il potere inserito in un Comitato misto.

4.2 I rapporti fra gruppi
L'impostazione del Lab prevedeva l’esistenza di sette gruppi di partecipanti, ciascuno con una coppia trainer-osservatore, ed un gruppo di staff. Durante i cinque giorni sono stati affrontati a fondo i problemi di rapporto fra gruppi di partecipanti e fra questi ed il gruppo staff. Tale analisi è stata molto favorita anche da un evento imprevisto: la costituzione, nel secondo giorno, di un ottavo gruppo di partecipanti composto di " transfughi " degli altri sette. Questo gruppo è sorto su iniziativa di alcuni partecipanti che si dichiararono, dapprima, intenzionati a progettare azioni di lotta contro l’Amministrazione e, in un secondo tempo, interessati a modificare l’assetto istituzionale del Lab. Non essendo riconosciuto dallo staff, questo gruppo ha lavorato per circa tre giorni senza alcun aiuto esterno. All’inizio questa entità extra istituzionale era vista dagli altri gruppi con un misto di ammirazione e di invidia, per il fascino della ribellione e dell’autonomia che aveva mostrato.
Portatore dell’ideologia della lotta " dall’esterno ", l’ottavo gruppo insinuava negli altri il dubbio dell’inutilità di una lotta " dall’interno " del Lab. Col passare delle ore il gruppo che si considerava il più rivoluzionario, scivolava da un ruolo di avanguardia sperimentale ad un ruolo di minoranza emarginata. La situazione simulativa, non prevista, offriva elementi di riflessione che nascevano da vissuti diretti, su fatti della politica nazionale. Lo scivolamento nell’emarginazione, induceva nell’ottavo gruppo un aumento della chiusura ed un avvio di atteggiamenti e comportamenti di sfida e di conflitto anche violento (verbalmente, s’intende). Ma tanto più aumentava la chiusura e la aggressività dell’ottavo gruppo, tanto più aumentava l’atteggiamento emarginante degli altri sette. Una spirale che si è andata acuendo fino ad una tesissima assemblea generale del quarto giorno, in cui si è arrivati a scambi molto violenti, fino all’espulsione dell’ottavo gruppo. Mentre il gruppo extra istituzionale scivolava in questa spirale di emarginazione e di violenza, gli altri gruppi mostravano una crescente coesione, interna a ciascuno, ed un aumento della solidarietà intergruppo. In questo clima, il gruppo ottavo aveva compreso il rischio di entrare in una spirale perversa ed aveva tentato dei contatti con gli altri gruppi, prima dell’assemblea che sanzionò la rottura definitiva. Questi contatti tuttavia, effettuati con ambasciatori inviati in ciascun gruppo, furono condotti in modo molto provocatorio, cosicché sortirono solo l’effetto di accelerare l’emarginazione.
Questa complessa simulazione ha consentito ai partecipanti di sperimentare in anticipo i problemi di relazione fra gruppo degli insegnanti e gruppo di animatori in una scuola, fra gruppo di animatori e gruppi di quartiere, oppure fra gruppi di animatori. Conflitti, problemi di emarginazione e problemi di rapporto avanguardie-masse sono fra i temi ricorrenti nella vita di operatori socioculturali; ed i loro fallimenti o successi si misurano proprio dalla capacità di stabilire corretti rapporti di intergruppo. Naturalmente questi sono facilitati dalla esistenza di corretti rapporti di gruppo, come se si determinasse una specularità fra le relazioni interpersonali nel gruppo e le relazioni intergruppali. La capacità di un gruppo di rapportarsi ad altri gruppi è infatti proporzionale alla maturità dei rapporti al suo interno. Un gruppo che si difende dagli altri, si chiude, collude col suo processo di emarginazione, è un gruppo nel quale non esiste un sufficiente clima di fiducia, oppure un gruppo nel quale si vogliono mantenere alcune diseguaglianze. Un gruppo non si apre e non collabora con altri gruppi se teme di " disfarsi " al contatto, se non si fida delle proprie risorse e della propria coesione. Allo stesso modo un gruppo non si apre e non collabora se teme di perdere gli equilibri interni consolidati, se non vuole mettere in gioco la propria struttura di potere. Allora i rapporti fra gruppi sono possibili solo a condizione che non siano vissuti come minaccianti; oppure a condizione che la minaccia sia meno importante dei benefici che essi prospettano.
In tal senso è una riprova la aumentata solidarietà fra i sette gruppi " legali ", contro l’ottavo gruppo extra istituzionale. La minaccia che era originata dalle aperture fra i gruppi, aveva meno valore della forza di arginamento ed esclusione che queste aperture consentivano nei confronti del gruppo deviante. Se la solidarietà " contro " è processo assai facile nei rapporti intergruppo, la solidarietà " per " lo è assai meno. Eppure il Lab ha offerto ai partecipanti anche questa esperienza. Tutti i sette gruppi previsti dall’istituzione, trovata una via di comunicazione ed una minima solidarietà, hanno potuto contrattare col gruppo staff da una posizione di forza, e quindi ottenere modifiche al programma del Lab per il quarto e quinto giorno. Questo mutamento istituzionale ha reso possibili numerose riflessioni sul terzo " focus " del Lab.

4.3 Il cambiamento sociale
Il cambiamento sociale, oltre che individuale, è l’obiettivo ultimo di ogni attività di animazione. Quasi sempre gli operatori hanno chiaro " perché cambiare "; spesso intravedono anche la meta finale del cambiamento; ma raramente gli operatori si pongono il problema del " come " cambiare, cioè della strategia e della tattica del cambiamento.
La psicosociologia, ovvero la scienza dei gruppi, è stata definita anche " metabletica ", cioè scienza del cambiamento.

4.3.1 Tipologia dei cambiamenti sociali

a) Il mutamento sociale può essere casuale, frutto di variabili non controllabili, privo di finalità o intenzionalità umane: un incontro con una persona e un raffreddore sono mutamenti casuali.

b) Un altri tipo di mutamento è quello violento: si tratta di un cambiamento che qualcuno opera " su " o " contro " la volontà di qualcun altro. Qui " violento " non deve richiamare solo i carri armati o il bastone, che sono il culmine di una gradazione di violenze. Nella stessa categoria possiamo considerare il cambiamento che avviene attraverso il ricatto psicologico, il paternalismo, la manipolazione. Anche se non della stessa gravità, questi tipi di mutamento sociale appartengono all’ordine della violenza, in quanto si propongono di piegare una volontà ad un’altra. Una misura di mutamento sociale di tipo violento, è quella che si richiama all’oggettività, alla razionalità ed alla non storicità. Per piegare la volontà di qualcuno (individuo, gruppo o categoria) si ricorre ad argomenti che giustificano questa violenza come oggettivamente necessaria, razionale e metastorica: l’uso delle votazioni a maggioranza, la scienza e la tecnica, il predominio maschile, sono esempi di un uso violento di concetti filosofici.

c) Esiste infine un terzo modo per cambiare, e cioè il mutamento intenzionale, programmato e partecipato. Il cambiamento che avviene sulla base di un progetto e di un rapporto. Esempi di questo cambiamento sono la pedagogia e la terapia non direttive, la democrazia decentrata e consiliare, la metabletica appunto.

4.3.2 Il cambiamento sperimentato nel Lab di Massa

a) Il cambiamento sociale, sperimentato nel Lab, si è basato su un’esperienza di progetto-programma intenzionale, unita ad un’esperienza di rapporti-partecipazione di gruppo e di comunità. Gli operatori socio-culturali devono evitare il pericolo di un’azione casuale, non finalizzata e non verificabile; ma devono altresì evitare il rischio di un’azione violenta, élitaria ed isolata. Tutte le volte che i gruppi hanno tentato di operare dei cambiamenti nel Lab, senza tener conto dei due livelli (progetto e partecipazione), si sono scontrati con fallimenti cocenti, agevolati dalle astuzie del potere altrui o dalla paralisi della propria impotenza.

b) Un altro punto fermo, vissuto nel Lab è un corollario del primo: il cambiamento sociale, appunto perché deve essere partecipato, non può che corrispondere ad un cambiamento personale.
Spesso gli operatori sociali confondono la partecipazione degli altri con la adesione alle proprie idee ed iniziative. La partecipazione si realizza invece nel " cambiare assieme ". Nessun cambiamento è possibile se non è simultaneamente individuale e sociale. Molti teorici di formazione vetero-strutturalista accusano questa impostazione di psicologismo o di riflusso; e molti teorici di ispirazione idealista controbattono, accusando i primi di economicismo. Ciò che il Lab ha consentito di sperimentare è che le variabili strutturali (rapporti di lavoro e di potere), quelle sottostrutturaii (inconscio, atteggiamenti, sentimenti) e quelle sovra strutturati (idee, cultura) devono essere agite simultaneamente. L’operatore del cambiamento deve mutare insieme al soggetto-oggetto del cambiamento. L’individuo che vuole stimolare il cambiamento sociale deve di pari passo provvedere al proprio mutamento personale. Ogni evento del Lab ha portato alla luce questo principio: il partecipante aggressivo ha dovuto acquisire capacità di mediazione; il solitario ha dovuto socializzarsi; il razionalista sensibilizzarsi ai bisogni emotivi e così via. Il cambiamento sociale è insomma un processo di attuazione del potenziale plurale possibile; perciò reca con sé la necessità di recuperare il plurale possibile anche nell’operatore che lo promuove.

c) Una terza esperienza importante di cambiamento sociale (istituzionale, organizzativo o comunitario che sia) effettuata nel Lab, è stata quella della crucialità del piccolo gruppo. Il piccolo gruppo si è dimostrato lo spazio e lo strumento necessario al cambiamento collettivo. Essendo il rapporto fra individuo e comunità o istituzione, un rapporto sbilanciato fra una persona concreta ed un’astrazione, solo la mediazione di un piccolo gruppo può livellare questa diseguaglianza. Il piccolo gruppo è infatti un insieme di persone concrete, ma anche un insieme di ruoli; un vissuto palpabile, ma anche un’astrazione. Proprio questa sua dualità intrinseca rende il piccolo gruppo cruciale per il cambiamento. La catena a doppia via costituita di individui, piccoli gruppi e comunità, è l’unica che consente un cambiamento. Un salto, un buco, un anello mancante di questa catena, non solo rende oggettivamente difficile ogni cambiamento: lo rende arduo soggettivamente e scorretto politicamente. La difficoltà soggettiva deriva dal fatto che non è possibile un rapporto, una partecipazione fra persone concrete ed astrazioni: se dominano le prime è un’allucinazione, se prevalgono le seconde è una violenza.
La scorrettezza politica discende proprio dalla difficoltà soggettiva: come può essere corretto un rapporto basato sulla allucinazione o la violenza?

Il Lab ha consentito ai partecipanti di sperimentare da attori queste affermazioni. Attori che sono passati attraverso sentimenti e situazioni oggetti ve di alienazione e di violenza istituzionale; tentativi allucinati o violenti, di cambiamento individuale; ed infine successi, promossi dalla appartenenza al piccolo gruppo e da aperti rapporti intergruppo. Ciò ha portato gli operatori a curare il progetto politico, allo stesso modo della partecipazione; il cambiamento sociale-istituzionale simultaneamente a quello personale; il clima ed i rapporti di gruppo, con la stessa intensità del clima e dei rapporti comunitari.

Nota bibliografica

G. LAPASSADE, L’analisi istituzionale, Isedi, Milano 1973.
E. SPALTRO - S. POLLINA, Psicologia dinamica organizzativa, Etaslibri, Milano 1975.
E. SEVERINO, Tecne, le radici della violenza, Rusconi, Milano 1979.
R. GURNUCCI, Il mondo capovolto, Rizzoli, Milano 1978.
W.G.
BENNIS, Il cambiamento organizzativo, Isedi, Milano 1976.

*Estratto da " QUADERNI DI ANIMAZIONE SOCIALE 2 ", ANIMATORI DI QUARTIERE SOCIETÀ EDITRICE NAPOLETANA NAPOLI, pag. 183-197