Psicologia del lavoro sociale  
Al recente XVII Congresso degli Psicologi Italiani, tenutosi a Viareggio, non ho frequentato la sezione dedicata alla psicologia del lavoro. In parte perché psicologi del lavoro iscritti alla S.I.PS. siamo così pochi che ci siamo già letti a vicenda più e più volte. Ma soprattutto perché desideravo misurare quanta psicologia del lavoro ci sia sul " territorio ", cioè nel settore tradizionalmente considerato non produttivo. Chi era a Viareggio può immaginare la mia delusione. Il Congresso ha confermato chiaramente che la psicologia del lavoro ha a che fare ancora essenzialmente con l'impresa. Ho cercato di pormi qualche domanda su questo fenomeno: come si spiega? È utile? Come è superabile? Deve essere superato?

Questa separazione della psicologia del lavoro dalle altre psicologie che operano nel sociale si può spiegare in molti modi, ma non si giustifica in alcun modo ed è assai dannosa. Il fenomeno è sconosciuto in Inghilterra, negli Stati Uniti ed in Francia, tanto per citare i paesi cui la psicologia del lavoro italiana è più debitrice. Ricordiamo per esempio che il T-group fu inventato da Lewin e dal suo gruppo, nel corso di un seminario per operatori sociali. Bion fece le sue osservazioni sui gruppi lavorando con personale ospedaliere. I maggiori studi sulla leadership furono fatti in ambito educativo (Sherif) o per l'esercito (Slater). Tutte le ricerche sul cambiamento culturale sono nate negli Usa per far fronte ai problemi urbani e razziali. Lapassade in Francia si occupa di problemi educativi. Il lavoro di Oury e della Mannoni si svolge fra gli handicappati; ed il lavoro di Jones (da cui nascono la psichiatria sociale e l'antipsichiatria) si sviluppa nell'ospedale psichiatrico. Tutti costoro traggono concetti, metodologie e tecniche da quel crogiuolo che in Italia definiamo psicologia del lavoro. È solo da noi che vige ancora la separazione fra psicologia del lavoro per l'impresa e altre psicologie per il " territorio ". Si finge di non sapere che la psicologia del lavoro è un modo di fare psicologia, 'e non un settore di applicazione. Si trascura che la psicologia del lavoro italiana degli ultimi quindici anni non è più la vecchia psicologia industriale o la vetusta psicotecnica. Il danno di questa ipocrisia lo pagano proprio gli psicologi del « territorio », che stanno riscoprendo a spese
loro e degli utenti ciò che la psicologia del lavoro ha scoperto da venti o
trenta anni.

Le cause di questa separazione sono molteplici, come dicevo. Ci sono cause storiche. La psicologia del lavoro è fra le più giovani in Italia (i primi tre ordinariati universitari sono stati assegnati due anni fa) ed il suo promotore (Gemelli) l'ha spinta dall'inizio sul terreno dell'impresa. Questo primo terreno ha dato per decenni alla psicologia del lavoro spazi di occupazione, occasioni di ricerca, e riviste specializzate.

Questa settorializzazione da una parte è servita per far progredire la psicologia del lavoro molto più di ogni altra psicologia, dall'altra, però, ha rallentato la sua diffusione nel terreno sociale. L'isolamento è andato così avanti da ostacolare l'identificazione col ruolo di psicologo a tutti gli operatori che nell'impresa hanno a che fare con la psicologia. I contributi di Calvi e Spaltro, in margine alla ricerca sullo psicologo in Italia promossa dalla S.I.PS., evidenziano bene questo fenomeno. Centinaia di operatori della psicologia lavorano nelle aziende italiane come ricercatori di mercato, selezionatori, formatori, esperti di organizzazione e P.R.,consulenti di pubblicità, ma hanno difficoltà a definirsi psicologi. Il Congresso di Viareggio dimostra peraltro che gli psicologi del « territorio » a loro volta hanno molte resistenze a considerarli colleghi. Fra le cause storiche possiamo indicare anche la situazione del « territorio » fino alla fine degli anni '60. Scuole, ospedali, istituti assistenziali, centri sociali non si consideravano ne erano considerati sistemi organizzati, spazi di conflittualità e di cambiamento, organizzazioni produttive.
Operavano sulla base di una impostazione assistenzialista ed individualista, senza alcun criterio di efficacia, proteggendo il loro isolamento e l'isolamento delle coppie insegnante-allievo, medico-malato, benefattore-assistito.

Ma la separazione ha anche origini socioeconomiche. La psicologia del lavoro si imparava (e forse anche oggi) all'estero, con un training costoso. È naturale che questi psicologi cercassero sistemazioni ben remunerate, in organizzazioni che offrissero possibilità di carriera, come quelle produttive. Molto spesso poi la formazione avveniva a spese dell'impresa stessa, per cui nell'impresa trovava applicazione. Le organizzazioni sociali invece hanno sempre offerto sistemazioni .poco edificanti oppure nessuna sistemazione. Inoltre le organizzazioni sociali avevano (e spesso hanno) alcune caratteristiche speciali: una struttura burocratica fortissima, una totale assenza di verifiche con l' utenza, una larga omogeneità culturale-ideologica.

La struttura burocratica con le assunzioni per concorso, la carriera automatizzata, i ruoli codificati per legge, gli stipendi per parametri, fanno venir meno le esigenze sulle quali la psicologia del lavoro tradizionale si è cimentata, come la selezione, l'assessment, il merit rating, il job design, la formazione. La mancanza di rapporto con l'utenza (mercato) e quindi il mancato regime concorrenziale, hanno portato per decenni le organizzazioni sociali a disinteressarsi di altri problemi tipici della psicolo- gia del lavoro come le ricerche sui bisogni del consumatore, o sulla comunicazione, come le strategie e le tattiche dello sviluppo o le dinami- che dei processi decisionali. Infine, l'omogeneità ideologica degli addetti, facilitata dai meccanismi di selezione del personale, ma anche dalla meno chiara contraddizione fra capitale e lavoro (rispetto all'impresa), ha fatto trascurare problemi essenziali come il cambiamento organizzativo, il conflitto, gli stili di comando, l'ambiente di lavoro e la morbilità.

Questa separazione si basa anche su due grossi pregiudizi politici che esistono fra gli psicologi del lavoro e gli altri psicologi. Per la psicologia del lavoro, il settore sociale è considerato (anche se implicitamente) come improduttivo, quasi un'area di non-lavoro. Questa posizione denuncia una visione del lavoro di tipo produttivistico, cioè che lega il concetto di lavoro con quello di ricchezza. Poiché il settore sociale non produrrebbe ricchezza, esso non sarebbe- neppure un settore di lavoro. Non c'è bisogno di scomodare un economista per capire l'infondatezza di una simile impo- stazione. Essa non è vera nemmeno in un'ottica economicistica: bastereb- be valutare il bilancio dei ministeri sociali (sanità, assistenza, istruzione, cultura, sport e turismo) per rendersene conto. Ma è ancora meno vera in un'ottica da psicologia del lavoro « moderna ». Il settore sociale produce alla stregua di quello industriale: malattie, conflitti, inefficienze, contraddi- zioni, alienazione, cultura, scienza, potere e così via. . Il « territorio » o il settore sociale sono ambiti di lavoro nei quali la psicologia del lavoro è chiamata a dare gli stessi contributi che da al- l'impresa: formazione, ricerca motivazionale, orientamento, tecniche di co- municazione, strategie di cambiamento, diagnosi organizzative. Resta fuori solo la selezione, ma credo non per molto; anche questo è un discorso da aprire con il «territorio», in modo serio, da parte degli psicologi. Anche gli « altri » psicologi hanno però un pregiudizio (abbastanza espilato) verso la psicologia del lavoro. Per molti di loro la psicologia del lavoro non avrebbe le carte in regola a causa della sua eccessiva frequenta- zione col capitale. Arrivano a fare il quadro fosco di una psicologia del lavoro prona davanti al padrone, sadica aguzzina del proletariato, scienza
del consenso. Questa ingenuità è smentita dalla realtà: una media impresa italiana è almeno il doppio più umana, conflittuale, dinamica di una media scuola o di un medio ospedale. Se si nega che su tutto ciò abbia influito, almeno in parte, anche la psicologia del lavoro, allo stesso modo bisogna negare ad essa un'influenza nelle dinamiche della repressione e del consenso. È ovvio che in una situazione capitalistica tutta la scienza tenda ad essere usata dal capitale per i suoi scopi (anche quella che opera sul «territorio»!). Come è ovvio che nelle situazioni di crisi di'un sistema politico-economico si aprano alla scienza possibilità di uso diverso o alternativo. È assurdo parlare di contaminazione di una scienza in base alla sua distanza fisica dai manager; così come è mistificante pensare a psicologiscolastici o di consultorio, alternativi per definizione, in opposizione a psicologi del lavoro, conformisti per vocazione.

Non possiamo trascurare un tentativo di spiegazione psicologica di questa separazione della psicologia del lavoro dal settore sociale. Credo che da parte dell'altra psicologia esista verso quella del lavoro un atteggia- mento di amore-odio analogo a quello provato per la psicoanalisi. Queste due psicologie sono più fecalizzate sull'intervento rispetto ad altre psicolo- gie, e sono quelle che esprimono il tentativo più completo di interpretazio- ne dei fatti individuali e sociali. Psicoanalisi e psicologia del lavoro sono i modi più filosofia e più politici insieme, di fare psicologia. Di fronte a questa loro ambizione, gli altri psicologi restano insieme affascinati e diffidenti. Esiste inoltre un problema psicologico da parte dei clienti: il problema del cambiamento. La psicologia del lavoro dichiara di occuparsi dell'intero sistema-diente, tenta di favorire il suo cambiamento ed a volte vi riesce. In tal modo la psicologia del lavoro è l'unico approccio che rifiuta, per metodo, il riduzionismo soggettivista nel quale invece sono sospinti gli psicologi del « territorio ». La paura ed il rifiuto del cambia- mento si sposano così con gli oggettivi interessi di potere, nel tenere la psicologia del lavoro fuori dal sociale. Anche nell'impresa esiste quésta paura, che però viene attutila dal confronto col mercato e dal conflitto capitale-lavoro che spingono in permanenza verso il cambiamento. L'ulti- ma spiegazione psicologica della difficile uscita della psicologia del lavoro dall'impresa, sta proprio negli psicologi del lavoro. Nell'organizzazione produttiva il conflitto di classe è esplicito e ben definito; lo psicologo del lavoro opera in interstizi precisi è contrattati dalle partì; quando il conflit- to è « guerreggiato » egli non ha difficoltà nel ridurre ad unum, almeno psicologicamente, la dialettica fra capitale e lavoro e schierarsi col manage- ment o col sindacato. Sul « territorio» la questione si complica, perché il conflitto più che duale è plurale. La contraddizione principale, che è forse quella fra pote- re istituzionale e utente, è offuscata e annebbiata da altre contraddizioni che si accavallano. L'utente è magmatico, ha tante voci che lo. rappresentano, cioè nessuna voce. La psicologia del lavoro sociale costringe gli psicologi ad operare nel plurale, che è lo scenario più ansiogeno che si possa immaginare. Lo strumento dell'Ideologia, che sostituisce l'utente nella mente dello psicosociologo, è una difesa perversa da contrapporre al potere istituzionale, perché l'Ideologia è proprio la difesa principe del potere stesso.

Se prendiamo Viareggio come specchio della psicologia italiana, possiamo notare che in essa trovano spazio ricercatori quantitativi e contemplativi, fisiopsicologi, behavioristi, cognitivisti, relazionalisti oltre che psicoanalisti e psicologi del lavoro. Fra tutti questi approcci credo che solo la psicoanalisi e la psicologia del lavoro (nei due filoni: -psicosociale e socioa-nalitico) possono offrire tentativi di lettura ed azione a vasto raggio e a livelli profondi. Tutti gli altri approcci ìnon escono dal ridotto soggettivismo o dall'inconsistenza politica. I nuovi psicologi del « territorio » o del sociale si trovano ogni giorno di fronte ad una domanda psicologica che proviene dal profondo, e si pongono intenzionalmente come operatori del cambiamento istituziona-
le e sociale. Più che di fronte a problemi strettamente terapeutici, essi si trovano a lavorare come sensibilizzatori, formatori, analisti culturali, co-progettatori di sistemi sociali. Per questi motivi penso che la psicologia del lavoro debba anche divenire psicologia del lavoro sociale, offrendo le sue metodologie e le sue tecniche come bagaglio indispensabile per ogni psicologo del « territorio ».